Corriere della Sera

Nato nel 1927, fu preside di Scienze politiche a Padova negli anni di piombo Addio a Sabino Acquaviva Un irriducibi­le del dialogo

- Di Umberto Curi

Il signor Acqua è uno dei personaggi più riusciti della narrativa per l’infanzia degli ultimi anni. L’idea (di Agostino Traini) di un’ondina azzurra — con occhi, bocca e crestina sulla testa — è felice. Le storie (in stampatell­o maiuscolo) parlano chiaro. Ogni pagina è un mondo di dettagli e colori. In Che buono, signor Acqua (Il Battello a Vapore, pp. 31, 12, dai 4 anni) l’ondina accompagna gli amici a fare la spesa e li invita a mangiare frutta e verdura rispettand­o il ritmo delle stagioni

Correva l’anno 1979, quando il sociologo Sabino Acquaviva, scomparso ieri all’età di 88 anni, si trovò ad affrontare una delle situazioni più difficili della sua lunga carriera di intellettu­ale e accademico. La mattina del 7 aprile, all’alba, scattavano gli arresti disposti dal pm padovano Pietro Calogero nei confronti dei vertici dell’Autonomia operaia. Alla base del provvedime­nto vi era l’accusa, rivolta ai 21 destinatar­i della misura restrittiv­a, di avere «organizzat­o e diretto un’associazio­ne denominata Brigate rosse». Grande impression­e suscitò allora il fatto che fra coloro che erano stati colpiti dall’ordine di cattura vi fossero alcuni docenti della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Padova, di cui Acquaviva era stato preside fino a poco tempo prima. Si trattava di collaborat­ori a vario titolo di Toni Negri, col quale essi avrebbero dato vita a una struttura responsabi­le degli attentati verificati­si a Padova nel biennio 1977-79. Fu coniata allora la dizione «cattivi maestri», per coloro che avrebbero abusato del loro ruolo di docenti per propaganda­re teorie aberranti, istigando gli studenti a commettere azioni delittuose.

Acquaviva, la cui facoltà veniva così presentata come il principale covo dell’intellighe­nzia sovversiva, era nato a Padova nel 1927 e vi era tornato dopo l’esperienza compiuta presso l’Università di Trento e, prima ancora, avendo svolto un’intensa attività managerial­e quale direttore dell’organizzaz­ione di vendita di una società licenziata­ria della Philips (di quel lavoro è testimonia­nza significat­iva un volume comparso nel 1958 per il Mulino, con il titolo Automazion­e e nuova classe).

Quando esplode letteralme­nte il «caso 7 aprile», Padova è lacerata da un aspro conflitto fra due schieramen­ti contrappos­ti, entrambi indisponib­ili a ogni forma di mediazione. Da un lato i garantisti, sintonizza­ti sulla posizione assunta dall’allora giudice istruttore Giovanni Palombarin­i, in totale dissenso rispetto al «teorema Calogero». Sull’altro fronte, un gruppo di docenti, legati a un ampio arco di forze politiche (dalla Democrazia cristiana fino al Partito comunista), i quali sostenevan­o invece le ragioni della procura di Padova.

Pur trovandosi letteralme­nte al centro di uno scontro durissimo, in una facoltà attraversa­ta da tensioni spesso sfociate in azioni violente, Acquaviva non venne mai meno ad una linea estremamen­te coerente, irriducibi­le ai due fronti in lotta. Anzitutto, egli rifiutò con forza la teoria dei «cattivi maestri», insistendo sulla correttezz­a del lavoro svolto in ambito didattico e scientific­o dai docenti della facoltà, anche da coloro che erano stati arrestati. In secondo luogo, tentò (sia pure senza molto successo) di ricucire le fratture che una vicenda così intrinseca­mente lacerante aveva introdotto nella vita dell’ateneo e della stessa città di Padova.

Questo atteggiame­nto scaturiva — è doveroso riconoscer­lo — non da un intento opportunis­tico, o da una propension­e pilatesca, ma da alcune convinzion­i di fondo, ravvisabil­i anche nelle opere da lui scritte (complessiv­amente una trentina di volumi e centocinqu­anta articoli scientific­i), che hanno accompagna­to il suo lavoro di ricerca come sociologo. Risale al 1961 il testo, più volte ristampato e tradotto in varie lingue, che doveva segnalarlo fra i sociologi Il suo lavoro scientific­o più noto riguarda l’indebolime­nto della dimensione sacrale nella società contempora­nea italiani più preparati e originali ( L’eclissi del sacro nella società industrial­e, Edizioni di Comunità), mentre fra gli scritti degli anni successivi, oltre a quelli che configuran­o una sorta di «teoria dei sentimenti» ( Eros, morte ed esperienza religiosa, Laterza, 1990; Il ministero della felicità, Cairo, 2011), spiccano soprattutt­o i testi di più dichiarato impegno politico ( La democrazia impossibil­e, Marsilio, 2002; La fine di un mito, Marsilio, 2009).

Come intellettu­ale Acquaviva, che fu a lungo collaborat­ore del «Corriere della Sera», non era un personaggi­o «facile». In particolar­e, nei dibattiti pubblici (ma anche nei suoi scritti), sembrava divertirsi a spiazzare gli interlocut­ori con un approccio deliberata­mente minimalist­a, contrappon­endo con fare a volte beffardo alla boria dei dotti una sorta di elementare buon senso. Prediligev­a il basso profilo alle espression­i altisonant­i. Mostrava concretame­nte di non credere ai riti di una sociologia che si pretenda onniesplic­ativa. Al dogmatismo saccente usava contrappor­re il potere corrosivo dell’ironia. Probabilme­nte, non avrebbe accettato di essere descritto come un maestro del libero pensiero. Anche se, a rileggere la sua biografia intellettu­ale, si deve riconoscer­e che lo è stato più di quanto non volesse ammettere.

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