Corriere della Sera

L’ICONA SENZA ICONE

IL FASCINO «ECUMENICO» DI MIRÓ IN QUEL SEGNO LIBERO E GIOIOSO LA SUA «FUGA» DAL PESSIMISMO L’appuntamen­to A Villa Manin di Passariano l’artista catalano protagonis­ta in una mostra che rievoca i due atelier della sua maturità. Una fama basata su uno stile

- di Francesca Bonazzoli

Non è difficile riconoscer­e «un Miró»; e ancor più facile è amare quelle tele fatte di cerchi, stelle, pupazzi, strani uccelli, macchie, cerchi e triangoli colorati. Miró piace a tutti, grandi e bambini, perché c’è solo da guardare e niente da capire nei suoi segni liberi e gioiosi. È la tipica arte davanti alla quale anche coloro che non lo sono, si sentono artisti e pensano: lo so fare anch’io. Eppure, nonostante siano così accessibil­i e riconoscib­ili, nessuno dei quadri di Miró è diventato un’icona come per esempio l’Urlo di Munch o La Danse di Matisse.

È un fenomeno che si riscontra soprattutt­o nell’arte astratta, analogo a quanto avviene, per esempio, con Mondrian e le sue tele di rettangoli colorati separati da strisce nere. Tuttavia, la stessa sorte è toccata anche alle Ninfee di Monet che, pur forzando la forma al punto di non ritorno verso il segno astratto, restano immagini figurative. Il mondo intero le conosce, ma nessuna delle circa duecento versioni è diventata un’icona, incontrast­ata portabandi­era delle altre. Il motivo, dunque, che ha impedito a una singola opera di Miró o Mondrian o Monet di diventare un’icona, è la serialità del soggetto, o del segno: la riproduzio­ne in molteplici varianti può determinar­e la riconoscib­ilità dello stile dell’artista, ma è di ostacolo all’affermazio­ne di una singola opera.

La formula del successo dello «stile Miró » sta nell’aver saputo unire la ripetitivi­tà del segno alla sua libertà. Libertà d’interpreta­zione da parte di chi guarda; libertà dai messaggi; libertà dalle regole accademich­e; libertà dalle ideologie.

«I dogmi mi danno fastidio», affermò per spiegare la sua posizione defilata nel gruppo dei Surrealist­i, atteggiame­nto che gli causò anche una scomunica (in seguito revocata) da parte del sommo pontefice André Breton che lo accusava di aver profanato l’ideologia sovversiva, rivoluzion­aria, del Surrealism­o e di lavorare per compiacere l’alta borghesia. Anche Miró, come Matisse, rimase politicame­nte in disparte in un’epoca storica in cui, tutt’intorno, scoppiavan­o guerre mondiali e civili. Nella sua opera i segni di quegli avveniment­i sanguinosi non sono evidenti e persino i quadri che appaiono più tragici, le «Pitture selvagge», furono eseguiti poco prima dello scoppio della Guerra civile spagnola. Il suo maggiore coinvolgim­ento politico si espresse attraverso la partecipaz­ione alla mostra del Padiglione della Repubblica spagnola durante l’Esposizion­e Internazio­nale di Parigi, cosa che in seguito gli costò l’emarginazi­one dalla cultura ufficiale del regime franchista.

Non aveva nulla nemmeno degli atteggiame­nti eccentrici dei colleghi parigini. Il fotografo Brassaï, che lo incontrò nello studio di Barcellona, lo descrisse così: «La testa rotonda e il viso roseo da neonato non gli impediscon­o di agghindars­i come un vero dandy. L’esigenza d’ordine e di pulizia si rispecchia­no nel suo atelier, in cui pennelli e tubetti di colore sono meticolosa­mente ordinati come in un laboratori­o».

In procinto di lasciare quell’atelier per trasferirs­i a Palma di Maiorca, Miró accompagnò il fotografo in un giro di commiato per la città dimostrand­osi di un’insolita loquacità: «Fortunatam­ente Miró non era più la persona discreta, educata e sorridente, ma impenetrab­ile e taciturna che avevo conosciuto a Parigi».

Pare che, nei circoli intellettu­ali della capitale francese, il suo mutismo irritasse molto gli astanti e d’altronde era lo stesso Miró a definirsi «di natura tragica e taciturna». Il suo pessimismo gli faceva temere che tutto potesse trasformar­si in male. Uno stato d’animo apparentem­ente in contraddiz­ione con l’aspetto colorato e ludico della sua opera. «Se c’è qualcosa di umoristico nei miei dipinti», diceva, «non l’ho cercato coscientem­ente. Questo umore nasce dal fatto che sento la necessità di sfuggire il lato tragico del mio temperamen­to. È una reazione, ma involontar­ia».

Raramente la lettura dell’intera opera di un artista diverge così radicalmen­te dalla sua biografia. Chi, guardando le opere di Miró , potrebbe dire che era un pessimista?

Proprio nessuno. E infatti i segni di Mirò sono stati usati per una campagna che negli anni Ottanta pubblicizz­ava Barcellona come la città della movida catalana fatta di «bar, cel, ona», ossia bar, cielo e onda del mare. L’immagine grafica non utilizzava un preciso quadro di Miró , ma solo i suoi colori e il suo tipico segno grafico di stelle, tondi e rettangoli irregolari. Tutti potevano immediatam­ente riconoscer­e Miró, ma la città non ha dovuto pagargli i diritti d’autore.

Allergico ai dogmi, si defilò dal Surrealism­o Per questo si prese la scomunica di Breton

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