Corriere della Sera

«Sono affascinat­o dall’occhio» Il suo legame con l’arte romanica

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L’ordine creativo Joan Miró nel suo studio di Palma di Maiorca a Son Boter, una delle sue due case sull’Isola, dove visse dal 1956 al 1983 L’affresco Nella chiesa catalana di San Clemente de Tahull (XII s.) gli angeli hanno ali occhiute dei tempi dove si collegano l’Apocalisse di Giovanni e la visione di Ezechiele: ma perché sono tanti gli occhi dei cherubini? Essi, con sei ali, due a coprire il corpo, due verso l’alto, due spiegate, stanno, dopo i serafini, nel cielo più prossimo a Dio, occhi dunque come simboli della conoscenza assoluta, per l’uomo irraggiung­ibile. Miró assume, dai dipinti romanici, le tinte piatte, la dissoluzio­ne dello spazio, lo scandito contorno, gli occhi segno di conoscenza. Certo, a Parigi ( 1919), il pittore deve avere amato anche il «primitivo» del Doganiere Rousseau ma, mentre Picasso studia la scultura negra, lui recupera le proprie radici, gli affreschi romanici dove «l’occhio si collega alla mitologia... del sacro». mostra a Villa Manin fra le 250 opere provenient­i dalla Fondació e da collezioni private, sono anche le Telas Quemadas del 1973: tele bruciate al centro che rivelano la propria struttura. E gli anni sperimenta­li di Miró sono inscindibi­li dai luoghi dove il pittore ha creato e riflettuto, cioè i due atelier di Maiorca — lo studio Sert, realizzato per lui dall’amico Luis Sert nel 1954, e Son Boter, che il pittore comprò apposta nel 1959 per ospitare grandi sculture — che la mostra di Villa Manin riproduce in parte: in particolar­e la «stanza rossa» di Son Boter, uno studiolo dalle pareti amaranto dove nessuno, nemmeno la moglie Pilar, entrava, e dove Miró si recludeva a pensare. In mostra ci sono i pochi effetti personali che la stanza (oggi chiusa al pubblico, a differenza degli altri spazi creativi di Miró) ospitava: foto di Picasso e del mecenate Joan Prats, bambole maiorchine, i ritratti dei genitori. «E poi odore di rosmarino e raggi di sole dalle finestre, irriproduc­ibili nella nebbia di Codroipo», ride il curatore. Che ha ovviato all’inevitabil­e perdita sensoriale con la musica: nelle sale centrali della mostra si può ascoltare «Into the Black», una serie composta dal friulano Teho Teardo (già autore delle musiche di vari film, come Il divo). Che le ha registrate proprio negli ambienti maiorchini di Son Boter, allestiti a studio di registrazi­one per l’occasione: «Oltre a vibrafono, campionatu­re, tastiere», spiega Teardo, «ho usato pennelli e spatole trovati là come percussion­i. E il riverbero naturale delle stanze aggiunge un suono particolar­e: in questo modo si “sente” lo spazio, che nelle opere di Miró era protagonis­ta».

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