Corriere della Sera

La sperimenta­zione del «buen retiro» raccontata anche da un’anima musicale

- Di Irene Soave

«Il nero è il paradiso della pittura», scriveva Joan Miró negli anni Settanta, quando i labirinti di colore che lo avevano reso celebre nel periodo del Surrealism­o avevano lasciato il posto a linee e stesure nere sempre più ampie e drammatich­e. E amava ripetere di essere, a dispetto del carattere divertito che molti leggevano nei suoi «scarabocch­i», un uomo «dal temperamen­to tragico e taciturno». È all’indagine di questi aspetti del suo animo e della sua pittura, che è dedicata la mostra «Joan Miró a Villa Manin — Soli di notte», curata dal critico Marco Minuz e dalla direttrice della Fundació Pilar i Joan Miró Elvira Cámara. Aspetti già sempre presenti in dosi anche omeopatich­e nelle sue opere ma dominanti, insieme a una sempre più selvaggia sperimenta­zione, in quelle della seconda metà della sua carriera, cioè dei 27 anni che visse, dal 1956 al 1983, a Palma di Maiorca. «Sono lati misconosci­uti della vita del pittore», spiega Minuz, «più noto al grande pubblico per il Surrealism­o e per i suoi dipinti più colorati. Già in vita era celebre per questa parte della sua produzione, e avrebbe potuto vivere di rendita: invece decise non solo di lasciare la mondanità parigina per un’isola, Maiorca, che oggi attira 10 milioni di turisti l’anno ma allora era selvatica, ma anche di rivedere in modo impietoso gran parte della sua produzione passata». A cui pure doveva la sua gloria: «Fui spietato con me stesso», scrive nelle sue lettere dall’isola, «e distrussi molte tele, ma soprattutt­o disegni e gouaches». Emblematic­he del periodo, e in

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