Corriere della Sera

BECCARIA E PENA DI MORTE IN UN TEMPO CHE CAMBIA

- Domenico Testa dom.testa2012@libero.it

In una risposta lei cita il passaggio di Dei delitti e delle pene che meglio sintetizza il pensiero del Beccaria contro la pena di morte. Tuttavia egli non la esclude perché la considera giusta e necessaria nei confronti di quelli che attentano al tranquillo regno delle leggi e alla sovranità dello Stato. Chi stabilisce e come la gravità di questo reato? Pur nella diversità dei contesti, quale trattament­o avrebbe riservato il grande illuminist­a ai terroristi, ai mafiosi di ieri e di oggi?

Caro Testa,

Beccaria tratta la questione della pena di morte con criteri che sono contempora­neamente democratic­i e pratici. In primo luogo si chiede se lo Stato abbia il diritto di infliggerl­a e sostiene che vi sarebbe un diritto soltanto se fosse stato conferito dalla volontà generale. Ma le leggi di allora proibivano agli uomini di togliersi la vita. Come sostenere che quegli stessi uomini avessero il diritto di conferire ad altri un potere che non avevano? In secondo luogo l’autore sostiene che la pena di morte sarebbe lecita soltanto se utile ed efficace, ma ricorda di avere già dimostrato che nessuna pena capitale ha mai distolto alcuni uomini da comportame­nti brutali e crudeli. Esistono tuttavia almeno due casi in cui la pena di morte può essere, secondo Beccaria, utile ed efficace: il primo, quando un individuo, anche se privo di libertà, abbia ancora tali relazioni e tale potenza che interessi la sicurezza della nazione; il secondo quando la sua esistenza possa produrre «una rivoluzion­e pericolosa nella forma di governo stabilita». La morte, conclude Beccaria, diviene dunque necessaria «quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia».

Il problema con questo criterio, caro Testa, è quello implicito nei quesiti della sua lettera. Se avessero dovuto rispondere dei loro massacri di fronte a un grande tribunale dell’umanità, Robespierr­e e Saint-Just avrebbero sostenuto che erano giustifica­ti dalla necessità di tutelare la salute pubblica. Se l’imputato fosse stato Josif Vissariono­vic Stalin, il leader sovietico avrebbe risposto che le purghe avevano salvato i principi della rivoluzion­e contro gli intrighi e i complotti dei loro nemici. Mentre Hitler avrebbe sostenuto che lo sterminio degli ebrei era necessario alla preservazi­one della razza germanica. Giudicati con i criteri di Beccaria, i processi di Norimberga e di Tokyo, invece, sembrerebb­ero giustifica­bili. Ma quali sarebbero state le sue reazioni se avesse dovuto giudicare gli omicidi mirati delle operazioni anti-terroristi­che o quelle condanne a morte senza giudice e avvocato difensore che furono i «processi» di Dresda, Hiroshima e Nagasaki? Può essere considerat­a guerra e giudicata con le norme del diritto di guerra quella che una nazione civile combatte contro una popolazion­e inerme?

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