IL RISCHIO DA CORRERE IN LIBIA
L’orologio libico si è messo a correre e l’Italia deve stare attenta a non perdere il treno. Mentre in Tunisia si tenta di far nascere il nuovo governo di unità nazionale, in Libia l’Isis compie sanguinosi attentati, attacca i terminali petroliferi, allarga a 400 chilometri il tratto di costa che controlla, riceve cospicui rinforzi mobilitati dai siti che il Califfato manovra. Per ora nessuno sembra opporsi alle scorribande dei tagliagole, e c’è già chi ipotizza una prossima offensiva verso Sud per congiungersi con i jihadisti del Mali del Nord come è accaduto tra Siria e Iraq.
Per ora possiamo soltanto prendere nota e augurarci di non aspettare troppo, o troppo passivamente, prima di difendere un nostro essenziale interesse strategico. La conferenza di Roma in dicembre e la firma in Marocco di un accordo per il governo unitario libico sono stati altrettanti successi della diplomazia italiana. Non solo. Ha ragione il ministro Gentiloni quando dice che la Libia non è una palestra per «esercizi muscolari», e ha ragione il premier Renzi quando ricorda i pessimi risultati dell’intervento del 2011 rimasto senza seguiti costruttivi. Anche noi abbiamo ripetutamente avvertito che una missione militare di peace enforcing nel caos libico comporterebbe un grande impegno e grandissimi rischi. Ma essere consapevoli non significa chiudere gli occhi, o ingaggiare duelli retorici tra supposti pacifisti e ipotetici guerrafondai.
I fatti sono chiari. L’Isis si sta rafforzando sull’uscio di casa nostra e sta moltiplicando le sue azioni offensive.
Parallelamente a Tunisi risulta probabile uno slittamento oltre il 16 gennaio della ratifica del nuovo governo unitario già scosso da feroci liti per le poltrone. Passi per il rinvio. Ma se al momento venuto non si riuscisse a insediare il neonato governo unitario in una Tripoli dominata dalle bande jihadiste, se il caos continuasse a tenere banco e nessuna alleanza di forze libiche (questo è lo schema immaginato) avesse i mezzi e la determinazione necessarie per affrontare e battere gli uomini del Califfo, cosa farebbe l’Italia?
Avanzare ipotesi negative non è un eccesso di pessimismo, vengono suggerite dall’esperienza. E comunque l’offensiva dell’Isis modifica radicalmente i dati dell’equazione, ne accelera i tempi, inserisce a pieno titolo la Libia nella cornice globale dello scontro con le milizie di al Baghdadi, rende necessaria la creazione di un deterrente credibile che possa almeno provare a frenare l’Isis mentre la diplomazia continua a lavorare come può. L’Italia, non è un mistero, teme che le mosse del Califfato inducano «qualcuno» (leggasi Francia, Gran Bretagna, e forse Stati Uniti) a non aspettare i tempi infiniti dei patteggiamenti libici e a fermare subito l’Isis con bombardamenti mirati. Si badi bene, mirati contro gli stranieri dell’Isis, non contro questa o quella fazione libica. Certo, potrebbe verificarsi una reazione nazionalista e antioccidentale di massa. E mancherebbe la richiesta di intervento emessa da un nuovo governo unitario, sebbene talvolta l’urgenza prevalga sulle risoluzioni dell’Onu e la copertura generica del precedente documento del Consiglio di sicurezza possa comunque essere invocata. È una prospettiva, questa, che l’Italia deve sin d’ora respingere e condannare, invocando magari il ruolo svolto da rivalità economiche o energetiche con gli alleati? Non lo crediamo. Mentre continua ad aiutare più di chiunque altro la trattativa per la nascita di un governo unitario, mentre conferma la disponibilità ad una futura missione di sostegno anche militare che vada dall’addestramento alla logistica e ad altre azioni richieste, l’Italia ha ogni interesse a mantenere funzionante il coordinamento con Parigi, Londra e Washington. Ne va del «ruolo guida» che meritatamente le viene riconosciuto, ma che non potrà farla rimanere semplice spettatrice se l’Isis poggerà ancora il piede sull’acceleratore e punterà a nuove imprese. Ne va della possibilità di recuperare, dopo aver battuto l’Isis, un progetto libico che deve prendere in conto anche la limitazione e il controllo del flusso dei migranti verso le nostre coste. Ne va, in definitiva, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana.