L’ira di Renzi per i tempi sul reato di clandestinità
Se c’è qualcosa di insopportabile per Matteo Renzi è che qualcuno tenti di strappargli di mano l’agenda politica, che per due anni ha gestito dettando temi e tempi. Il solo fatto che ora su quell’agenda altri tentino di scrivere o disegnare scarabocchi, fa capire quanto sia cruciale il momento.
La contesa sulle unioni civili, e la decisione del governo sul reato di immigrazione clandestina, sono nodi che il premier non aveva sciolto e che si materializzano alla vigilia del passaggio parlamentare per lui più importante: l’ultimo e decisivo responso del Senato sulle riforme costituzionali, su cui Renzi ha puntato l’intera posta. La sua attenzione era e resta concentrata su quella votazione, che può renderlo definitivamente dominus del Palazzo in vista del referendum popolare, e soprattutto dopo. Perciò il leader del Pd avrebbe bisogno di un quadro politico stabile in vista di quell’appuntamento.
Invece per la prima volta sembra aver perso di mano l’agenda, costretto a rincorrere gli eventi, a tamponare per evitare pericolose fibrillazioni. C’è un motivo quindi se sulle unioni civili si defila e mette al riparo l’esecutivo, derubricando la materia a questione di gruppi parlamentari, nemmeno di partito. Senza entrare in rotta di collisione con Alfano — suo alleato di governo — che ha ingaggiato la battaglia sulla stepchild adoption. E non è un caso se il premier e il ministro dell’Interno si sono ritrovati ieri sulle stesse posizioni dovendo decidere cosa fare del reato di immigrazione clandestina, tema anche questo che stava fuori dalle priorità di Palazzo Chigi.
Ragioni di «opportunità politica» (ed elettorale) inducono Renzi a fare in modo che il reato non venga depenalizzato, anche se il Guardasigilli — che ha in mano il provvedimento — ha un’opinione diversa e teme di essere attaccato come ministro inadempiente, a fronte del mandato a legiferare che aveva ricevuto dal Parlamento. Già nello scorso novembre, però, nel braccio di ferro che sul tema si era creato in Consiglio tra Orlando e il titolare del Viminale, il premier aveva preso le posizioni di Alfano: «È meglio se stralciamo l’argomento».
E siccome la decisione — dopo il passaggio alle Camere — spetta all’esecutivo, Renzi ieri ha di fatto ribadito quel concetto, per quanto «logica vorrebbe che si scegliesse di depenalizzare il reato» in sanzione amministrativa, come ha riconosciuto anche il ministro dell’Interno. Ma alla luce dei fatti di Colonia e del clima che si respira nel Paese non è il momento. Nel Pd a trazione renziana, a sera avevano ancora i capelli dritti pensando alle piazze infuocate dalla Lega in vista delle Amministrative: «Se non si può più stralciare la materia dalla delega, si farà decadere la delega».
È evidente che l’approccio di «sinistra» su unioni civili e immigrazione ha innalzato la tensione nella maggioranza. Per Alfano — che lo ha scritto di recente su Repubblica — la cosa «non è per nulla casuale», e la sua tesi non ha preso di certo alla sprovvista la maggioranza democrat e Palazzo Chigi, sebbene si cerchi di sopire e troncare qualsiasi forma di polemica. Per quanto irritato, il premier ha un obiettivo primario oggi: evitare che l’agenda gli sia scarabocchiata da quanti mirano a causare turbolenze alla vigilia del voto del Senato sul Senato.
Forse dopo quel passaggio recupererà l’ironia con cui gestiva ogni problema che prendeva corpo anche in Consiglio dei ministri. Una volta il premier «superò se stesso», come racconta un autorevole esponente di governo del Pd che ne aveva viste tante ma non fino a quel punto. Rendendosi conto della piega che stava prendendo la discussione, Renzi prese il suo cellulare, lo accostò al microfono del tavolo e fece partire una musichetta: «C’è troppa tensione nell’aria... Forza, vediamo chi la riconosce per primo. Di chi è questa canzone?».
Entro gennaio si terrà la madre di tutte le votazioni al Senato e il premier ha bisogno di stabilità. E in questo contesto non sarà un fatto secondario capire se il rinnovo delle presidenze di Commissione a Palazzo Madama avverrà prima o dopo l’ultimo responso sulle riforme. Dietro una apparente questione di poltrone si cela infatti un nodo politico: lo scrutinio segreto sulle presidenze svelerà se Verdini continuerà a offrire solo un «appoggio esterno» al governo oppure se cambierà ruolo, e il suo diventerà un «appoggio interno». Magari per garantire un margine di sicurezza per il voto decisivo sulle riforme.