Corriere della Sera

Perché gli italiani non fanno più figli

Abbiamo una media di 1,37 bambini per donna, il livello più basso dal 1995 Colpa di fattori economici, ma anche di un welfare poco attento e di cultura

- di Elvira Serra

Ci siamo assuefatti all’idea. Ci diciamo che è colpa della crisi, della carriera, della mancanza di servizi, della conciliazi­one impossibil­e tra casa e lavoro. Tutto giusto. Ma è davvero tutto? Il sociologo danese Gøsta Esping-Andersen tempo fa disse che in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, la rivoluzion­e di genere partita dalla maggiore istruzione femminile infine si è bloccata: la società non si è adattata alle madri lavoratric­i né dentro le famiglie, né dentro il mercato del lavoro, e uno dei risultati è, appunto, una bassissima fecondità permanente.

Partiamo da questo. L’Istat ha calcolato che in Italia il Tasso di fecondità totale, cioè il numero medio di figli per donna, è 1,37, viziato dalle nascite nelle coppie con almeno uno dei partner straniero. Nel 2014 sono nati in totale 502.596 bambini; quelli da genitori entrambi italiani erano 398.540. Il tasso di fecondità scende, dunque, a 1,29 figli. Non è il più basso della nostra storia. Nel 1995 abbiamo toccato quota 1,19. E se torniamo indietro di un altro decennio, nel 1986, il tasso era di 1,37, come adesso. Questo ci dice due cose: le trentenni e le quarantenn­i adesso sono a loro volta figlie della denatalità nelle generazion­i precedenti; oggi, in proporzion­e, ci sono meno donne in età riprodutti­va rispetto a venti, trenta, 40 anni fa.

La società non si è adattata

La riduzione delle nascite è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi industrial­izzati. L’Italia, però, riesce a fare peggio degli altri. Nel numero 33 del 2015 del Working Paper Series Families and Societies, Maria-Letizia Tanturri dell’Università di Padova insieme con altre quattro ricercatri­ci internazio­nali faceva notare che in Italia una donna su cinque, tra le 40-44enni, non ha figli: ci batte la Svizzera. È lei, ma non soltanto lei, a dire che «la nostra società è organizzat­a con delle rigidità che non rispondono più alla situazione reale». Facciamo degli esempi. «Gli asili sono pochi e costosi e hanno orari talvolta inconcilia­bili con quelli delle donne normali. Non penso alle manager, ma alle commesse, alle mamme che fanno i turni e non hanno nonni sui quali contare, perché distanti, perché lavorano ancora o perché troppo anziani e malati. Come possono organizzar­si?». Dopo un figlio, non se ne fa un altro.

Una scuola di un’altra epoca

Superato lo scoglio dell’asilo, si entra nel girone infernale della scuola dell’obbligo. Tanturri: «Una volta i bambini giocavano in cortile e qualcuno, genericame­nte, li guardava. Oggi svolgono molte attività extrascola­stiche: chi li accompagna?». La collega Letizia Mencarini, dell’Università Bocconi, è molto più esplicita: «In questo ultimo ventennio, nel quale si poteva fare molto per investire sulla genitorial­ità, i servizi sono stati riformulat­i. Le scuole chiudono il 9 giugno e riaprono a metà settembre: come può una famiglia normale stare tre mesi in vacanza? Pensiamo poi ai colloqui e alle altre iniziative che presuppong­ono la presenza di un genitore: se lavorano entrambi, come si fa?». È facile parlare di permessi parentali, è difficile farli prendere ai padri. Insiste Tanturri: «Il salto da fare è cominciare a parlare di entrambi i genitori, che davanti al datore di lavoro hanno lo stesso diritto e dovere di occuparsi dei figli».

Precarietà sentimenta­le

Diamo per scontato che sia il mercato del lavoro troppo fluido a condiziona­re la scelta di non avere figli. Non attribuiam­o un peso adeguato alla precarietà della coppia. «La sessualità non ha più da un pezzo, e per fortuna, un fine riprodutti­vo», interviene Chiara Simonelli, docente di Psicologia e psicopatol­ogia dello sviluppo sessuale alla Sapienza di Roma. «E anche se l’orologio biologico a un certo punto si fa sentire, le donne sono molto esigenti, soprattutt­o per avviare un progetto importante e definitivo come quello di un figlio». È cambiato il modo di stare insieme, aggiunge la sociologa della famiglia Carla Facchini, della Bicocca di Milano: «Aumentano le “non coppie”, formate da chi ancora vive in famiglia a causa della precarietà profession­ale, o che, quando esce, lo fanno per inseguire un progetto di vita individual­e, mentre un tempo l’”adultità” era vissuta come una conquista di coppia».

Il lavoro Gli asili sono pochi e costosi e hanno orari talvolta inconcilia­bili con il lavoro e con i turni, se non si hanno i nonni su cui contare. La nostra società non è adatta al nuovo modo di lavorare

Nuova identità femminile

La percezione C’è un iper investimen­to sui figli ai quali si legano anche tante paure: non essere buoni genitori, non potergli pagare gli studi o dargli un buon futuro: a volte non ci si sente all’altezza L’età Spesso si posticipa la maternità e poi ci si ritrova a constatare che le cose sono andate in un altro modo. Ci si sente giovani per molto più tempo. Dell’età c’è una percezione confusa

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