Nel Sinai cresce il potere di Isis
GERUSALEMME Prima di essere assassinato nel 1981, Anwar Sadat pianificava di innestare cinque milioni di egiziani nel Sinai, l’acqua del Nilo sarebbe stata deviata, il deserto sarebbe diventato campi coltivati, nuove città avrebbero sostituito i vecchi villaggi. È quello che ha realizzato il suo successore Hosni Mubarak con i piccoli borghi di pescatori: solo che lo sviluppo turistico di Sharm elSheikh (diventata la residenza estiva del Faraone abbattuto dalla rivoluzione di cinque anni fa) o di Hurgada, che ormai si allunga per quaranta chilometri lungo la costa, non hanno beneficiato i beduini della penisola.
Anzi l’espansione della Riviera sul Mar Rosso è stata percepita come un’invasione dalla capitale, ha tolto il (poco) lavoro agli abitanti che sono stati costretti a lasciare la costa meridionale per rifugiarsi sulle montagne dell’interno. Da dove sono ridiscesi con le auto imbottite di tritolo: tra il 2004 e il 2006 gli attentati hanno devastato Taba, Ras al-Shaitan, Nuweiba, Sharm el-Sheikh, Dahab. Una vendetta da 130 morti contro il turismo egiziano.
Anche Mohammed Morsi prometteva di aiutare «i figli del Sinai». I suoi due viaggi presidenziali volevano simboleggiare la riconciliazione ma hanno solo preceduto le minacce militari: Morsi ha ordinato il dispiegamento dell’esercito e per la prima volta dal conflitto contro Israele del 1973 gli elicotteri d’attacco egiziani hanno sparato missili nel Sinai.
Tra i capi dei Fratelli Musulmani, ha però evitato il confronto militare diretto con i clan locali e i cavalieri del deserto hanno continuato a spadroneggiare sui loro cammelli d’acciaio, i fuoristrada che sono il simbolo di potere dei trafficanti di donne-uomini-armidroga e il mezzo d’attacco preferito dai fondamentalisti locali che alla fine del 2013 hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico.
Così la guerra che Morsi non ha dichiarato è adesso quella che Abdel Fattah al Sissi, il generale diventato presidente dopo averlo imprigionato, deve combattere. Il Sinai è rimasto troppo a lungo fuori dal controllo e dall’attenzione del governo centrale. I 300 mila beduini rappresentano il 70 per cento della popolazione e appartengono a una ventina di tribù. Che hanno le loro leggi e le loro usanze: i clan negli anni hanno cominciato a rispettare sempre di più le norme predicate dagli sceicchi attraverso gli altoparlanti durante la preghiera. «Sono diventati profondamente religiosi — ha scritto sulla rivista Jerusalem Report l’analista israeliano Avi Issacharoff — le moschee sono finite sotto il dominio di gruppi fondamentalisti arrivati da fuori. Gli abitanti hanno aiutato i terroristi ad acclimatarsi».
Ansar Bayt al Maqdis, organizzazione cresciuta nella penisola, vuole dimostrare che in Sinai c’è un nuovo potere: si oppone a quello del Cairo ed emana da Abu Bakr Al Baghdadi. Del Califfo i boss locali cercano di emulare la strategia: i posti di blocco lungo le strade che attraversano lo «scatolone di sabbia» — come lo chiamano gli storici egiziani — vogliono sostituirsi alla polizia dello Stato, i vessilli neri issati sulle caserme militari conquistate vogliono far credere che stia nascendo uno Stato (Islamico) nello Stato. Del Califfo proclamano di eseguire gli ordini: l’attentato di giovedì contro un autobus di turisti israeliani al Cairo è stato rivendicato come la risposta all’appello del leader di «uccidere gli ebrei».
L’estate scorsa al-Sissi ha firmato i cinquantaquattro articoli della legge antiterrorismo. Da militare assicura di poter riportare la calma nel Sinai, di poter fermare gli estremisti che da lì colpiscono nella capitale. Il turismo è fondamentale per un Paese che non riesce a uscire dalla crisi economica, la sicurezza nei villaggi sul Mar Rosso è stata rafforzata, l’esercito
In Sinai le moschee cadute sotto il controllo di fondamentalisti venuti da fuori
fa da cordone protettivo verso le montagne sotto il dominio delle tribù. Israele coopera nella lotta contro i fondamentalisti, offre l’appoggio dei suoi droni, gli aerei senza pilota guidati a distanza: i 61 mila chilometri quadrati che collegano due continenti sono tanti da sorvegliare e il premier Benjamin Netanyahu li considera «il far west sul nostro confine sud».