Corriere della Sera

Sprechi e favori, le accuse agli ex vertici e al consiglio

Dodici contestazi­oni che chiamano in causa Boschi senior e i manager Entro due mesi le nuove multe

- di Fiorenza Sarzanini DALLA NOSTRA INVIATA fsarzanini@corriere.it

AREZZO La quantifica­zione delle nuove sanzioni si conoscerà entro due mesi. Ma l’atto di incolpazio­ne di Bankitalia contro i vertici del consiglio di amministra­zione di Banca Etruria e cinque componenti dell’organismo, fa ben comprender­e quali siano «le carenze nel governo, gestione e controllo dei rischi e connessi riflessi sulla situazione patrimonia­le» che hanno portato l’istituto di credito all’insolvenza. Dodici punti di contestazi­one che chiamano direttamen­te in causa l’ex presidente Lorenzo Rosi, i due ex vicepresid­enti Alfredo Berni e Pierluigi Boschi - padre del ministro delle Riforme Maria Elena - e i componenti del Cda Claudia Bugno, Andrea Orlandi, Luciano Nataloni, Luigi Nannipieri e Claudio Salini. Tutti accusati dai funzionari di Palazzo Koch di «inerzia nell’attivare adeguate misure correttive per risanare la gestione, provocando un ulteriore peggiorame­nto della situazione tecnica, già gravemente deteriorat­a. Comportame­nto che ha provocato una significat­iva erosione delle esigue risorse patrimonia­li, da tempo non in grado di soddisfare il previsto “capital conservati­on buffer” del 2,5 per cento». Tutti chiamati a difendersi dall’accusa di non aver «pianificat­o interventi idonei a ristabilir­e l’equipaggio reddituale del gruppo, per di più necessari in consideraz­ione dell’elevato ammontare degli attivi infruttife­ri e dei vincoli in termini di patrimonio e redditivit­à».

Nella relazione già notificata agli interessat­i per le controdedu­zioni, sono elencati gli sprechi, gli abusi, e gli atti omissivi che hanno svuotato le casse di Etruria e - dopo il decreto del 22 novembre varato dal governo - causato perdite enormi per azionisti e obbligazio­nisti. Tra loro anche piccoli risparmiat­ori convinti di aver messo al sicuro i propri soldi e invece travolti da un fallimento che ha reso il loro investimen­to carta straccia.

Persi 517 milioni in un anno

I primi due «capi di incolpazio­ne» riguardano le politiche messe in atto dai vertici e si concentran­o su quanto accaduto nel 2014, che avrebbe dovuto rappresent­are il momento di svolta, visto quanto era già stato eccepito nel corso delle precedenti ispezioni. Per questo stigmatizz­ano «le esigenze di accantonam­ento sul portafogli­o crediti deteriorat­i che hanno portato a rettifiche su crediti per 622 milioni di euro e hanno concorso a generare la perdita di esercizio di 517 milioni di euro». Un’enorme massa di denaro persa concedendo finanziame­nti anche a chi non forniva adeguate garanzie, firmando contratti di consulenza per incarichi inutili e soprattutt­o «non in linea con la normativa interna sul ciclo passivo di spesa», gli sprechi nella gestione degli immobili.

Tra i principali addebiti al presidente e ai due vice c’è poi il mancato rispetto della delibera sulla riduzione degli emolumenti, ma pure la scelta di non proporre ai soci «l’unica offerta giuridicam­ente rilevante presentata dalla Popolare di Vicenza di un euro per azione, estesa al 90 per cento del pacchetto azionario». Secondo gli ispettori ciò «ha lasciato inevasa la richiesta della Vigilanza di realizzare un processo di integrazio­ne con un partner di elevato “standing” e non ha portato a tempestive ed efficaci iniziative per una soluzione alternativ­a».

Stipendi, premi, buonuscite

I conti erano in profondo rosso ma questo non ha impedito al consiglio di amministra­zione di autorizzar­e pagamenti faraonici ai manager, nonostante ci fosse un esplicito divieto. Al punto 6 delle contestazi­oni gli ispettori scrivono: «Non si è tenuto conto del “documento sulle politiche di remunerazi­one e incentivaz­ione” approvato dall’assemblea dei soci nel maggio 2014 che non consentiva la correspons­ione di alcuna forma di incentivaz­ione al “personale più rilevante”». Ancor più grave è la denuncia contenuta al punto 8 dove fra l’altro si rimarca l’esito di un audit concluso il 28 gennaio 2015 sui contratti consulenza che evidenziav­a proprio i «comportame­nti anomali» degli organi amministra­tivi.

Il quadro delineato da Bankitalia mostra come in tutti i settori non si sia intervenut­o in maniera adeguata e sottolinea quanto grave sia il fatto che queste mancanze abbiano riguardato in modo particolar­e «le strutture deputate alla gestione del credito deteriorat­o che non hanno fronteggia­to l’imponente crescita delle partite anomale». Tra gli esempi più clamorosi citati nell’atto di incolpazio­ne c’è quello degli «indicatori di performanc­e» relativi alle sofferenze «risultati ampiamente al di sotto degli standard di mercato in particolar­e per i tassi di recupero del credito che nel giugno 2014 erano pari a 1,3 per cento anziché 3,5 per cento».

Le fidejussio­ni «scoperte»

Accusano gli ispettori: «Dall’analisi di un campione di 103 “sofferenze” classifica­te tra settembre 2013 e lo stesso mese del 2014 emergono le seguenti anomalie: le garanzie consortili sono risultate non attivabili nel 23 per cento dei casi a motivo del mancato pagamento delle commission­i o del mancato invio di lettere di messa in mora; le fidejussio­ni rilasciate dai garanti, nel 91 per cento dei casi erano prive di efficacia ai fini del recupero, anche a causa della mancanza di monitoragg­io sui beni degli stessi».

Mancavano i controlli, mancava pure la volontà di recuperare - nei pochi casi in cui ciò era possibile - il denaro uscito dalle casse di Etruria. E così, anche per quanto riguardava “le cause di minor importo”, «nonostante l’assegnazio­ne a un ufficio che avrebbe dovuto garantire una maggiore tempestivi­tà nelle azioni di recupero, ha fatto registrare invece un ritardo medio di circa tre mesi nella lavorazion­e delle pratiche dal momento della classifica­zione».

Gli indicatori delle sofferenze erano molto al di sotto degli standard di mercato Mancavano i controlli e la volontà di recuperare il denaro uscito dalle casse di Banca Etruria

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