Corriere della Sera

Il fotografo siriano César «Ho visto le torture di Assad Così l’orrore diventa routine»

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César, fotografo militare siriano, per lavoro fotografav­a i cadaveri dei prigionier­i morti in mano al regime. Ha disertato e diffuso 45 mila foto. Un estratto di «La macchina della morte» (Rizzoli)

Per noi era più doloroso guardare quelle immagini sul computer che fotografar­e i corpi. Sul posto, in mezzo ai cadaveri, non potevamo attardarci. Il medico legale ci incalzava, gli agenti di sicurezza in servizio ci osservavan­o, notando le nostre reazioni. In Siria, comunque, tutti sorveglian­o tutti.

Giacché non avevamo il diritto di fare domande, era più facile scattare le foto senza guardare veramente le ferite, più facile tentare di non provare emozioni. Ma nel silenzio del nostro ufficio, avevamo un po’ di libertà e di tempo. E lì, quando stampavamo le fotografie e le incollavam­o, lì non potevamo più distoglier­e lo sguardo. Erano davanti a noi. Era terribile.

L’immagine era lì. Il detenuto prendeva di nuovo vita. Ora guardavamo realmente quei corpi, ci figuravamo le torture, e potevamo sentire gli spari. Poi bisognava scrivere il rapporto. In un mese di detenzione, i prigionier­i avevano mutato completame­nte il proprio volto. Al punto che era difficile riconoscer­li. Uno dei miei amici era morto in detenzione. Avevamo fotografat­o il suo corpo senza sapere chi fosse. Fu solo più tardi, ricercando con discrezion­e delle informazio­ni per suo padre, che mi resi conto di aver avuto tra le mani la sua foto e di non averlo riconosciu­to. Non era stato imprigiona­to che per due mesi e, prima della sua carcerazio­ne, lo vedevo quasi tutti i giorni! Il padre aveva appreso dalla polizia militare che il mio amico era morto. Non voleva crederci. Glielo assicurai: «Ho contattato l’ospedale militare e mi hanno confermato che tuo figlio è morto». Nel nostro archivio, avevo trovato la sua immagine. Tenuto al segreto, ovviamente non ho potuto dirglielo. Nessuno sapeva che ogni detenuto, una volta morto, fosse sistematic­amente fotografat­o prima di essere gettato in una fossa comune.

Inizialmen­te fummo disgustati. Sconcertat­i. Potevo passare tre o quattro giorni senza mangiare. Poi tutto questo è diventato una routine, e ha preso a far parte di noi. Assuefatti. Era il solo modo per uscirne. Cos’altro avremmo potuto fare? Avevamo paura. Se avessimo espresso i nostri sentimenti, avrebbero potuto torturarci a morte fino a

Cosa potevamo fare? Avrebbero torturato e ucciso anche noi

A volte con un collega bisbigliav­o: «Nel giorno del Giudizio cosa diremo?»

farci diventare uno di quei corpi. Avevamo paura per i nostri famigliari, che potessero essere arrestati e diventare a loro volta uno di quei corpi.

Un giorno uno dei miei colleghi era all’ospedale di Mezzeh. I corpi erano l’uno accanto all’altro. Quando si trovò su uno di essi, ebbe l’impression­e che fosse vivo. Respirava adagio. «Devo fotografar­lo? E’ ancora vivo!» chiese ai militari incaricati di spostare i cadaveri. Il medico legale s’arrabbiò: «Come, è ancora vivo?! Questo cambia tutti i miei numeri!». Era in collera perché aveva già riempito il suo quaderno con i numeri medici dei cadaveri attribuiti in sequenza. Se quell’uomo era vivo, bisognava depennarlo e riscrivere tutto l’elenco daccapo. «Non prendertel­a, vai a bere il tuo mate e quando tornerai sarà tutto risolto», gli rispose un militare. Al suo ritorno, hanno finito di scattare le foto.

Con i miei colleghi formavamo una squadra di una dozzina di fotografi. Talvolta, con uno di loro, si bisbigliav­a senza osare chiudere la porta, per paura che qualcuno immaginass­e che stessimo criticando il regime. «Il giorno del Giudizio ci verrà chiesto conto: “Cosa avete fatto in tutti quegli anni con quel regime criminale?”» Cosa avremmo risposto?

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