EUROPA E CRESCITA LE DIFFICILI SFIDE DEL GOVERNO RENZI
Per superare la crisi serve un esecutivo forte, che però deve resistere a opposizioni politico-ideologiche
Il 2016 non si presenta con i migliori auspici. A livello mondiale, gli equilibri geoeconomici e geopolitici sono peggiorati quasi ovunque. Finita l’epoca d’oro dei Brics, a sostenere la domanda mondiale sono restati tra i grandi Paesi solo gli Stati Uniti e la Cina, quest’ultima però alle prese con un fisiologico rallentamento cui cercherà di dare ordine e indirizzo il piano quinquennale che l’Assemblea popolare cinese approverà nel marzo prossimo. Ciò che scarseggia è dunque la domanda, il vero propellente dello sviluppo: difficile obiettare alla tesi di Paul Krugman. Politicamente siamo messi ancor peggio, e ci minacciano fonti di tensione a noi vicine: il Medio Oriente è in fiamme e, al confine nordorientale dell’Europa, Ucraina e Turchia sembrano riaccendere i vecchi conflitti della guerra fredda a seguito delle diverse strategie perseguite da Russia e Stati Uniti.
Ma a noi interessa soprattutto l’Europa e qui parlare di tensioni e difficoltà è un understatement diplomatico che rasenta la menzogna: il progetto europeo è in una crisi che potrebbe rivelarsi fatale. Di fronte ai flussi di immigrati provenienti dai teatri bellici vicini e in fuga dalla miseria che circonda a Est e a Sud la nostra isola di opulenza; di fronte alla difficoltà di assicurare degli affidabili confini europei per ridurre tali flussi a proporzioni sostenibili, il trattato di Schengen, uno dei titoli d’onore dell’Unione, è sospeso in alcuni Paesi a tempo indefinito, e anche quelli che ancora non si sono pronunciati saranno probabilmente indotti a farlo: «Facciamo da soli», se dissensi e recriminazioni nazionalistiche e interstatali impediscono la costruzione di un robusto argine esterno. Costretti dalla crescita impetuosa di movimenti xenofobi e nazionalisti, alimentati dal terrorismo jihadista oltre che dalla dimensione dell’immigrazione e dalle difficoltà di integrarla, i Paesi e i partiti che ancora sostengono senza esitazioni il progetto europeo, com’è oggi espresso dalla legislazione e dalle istituzioni che l’Unione si è data, si stanno riducendo o si avvicinano di fatto alle politiche sostenute dai loro avversari.
Anche perché — e questa è la seconda fonte di crisi — la promessa di crescita e benessere su cui si basava l’acquiescenza (se non l’esplicito consenso) delle popolazioni dei diversi Stati europei al progetto di Unione, e soprattutto al sistema monetario europeo, si è sinora rivelata fallace. E l’unico modo risolutivo per onorarla, per condurre l’unione allo sviluppo, è avanzare decisamente in direzione di una unione politica: il che oltretutto aiuterebbe anche a risolvere il problema dell’immigrazione e dei confini esterni. Ma ben pochi vogliono un vero Stato federale, con un bilancio robusto e una banca centrale che funzioni come prestatore di ultima istanza, neppure i Paesi che ne trarrebbero i maggiori vantaggi. In mezzo a dissensi e recriminazioni, di fatto l’Unione e la moneta unica stanno in piedi per paura, perché nessuno sa come uscirne senza provocare una catastrofe, una recessione economica di dimensioni maggiori dell’attuale ristagno dell’intero continente e dell’asfissia cui sono soggetti i Paesi più deboli e indebitati. Ma il collasso e l’uscita della Grecia dal sistema monetario, la Grexit, non sono affatto scongiurati. Sul versante opposto, quello dei Paesi più ricchi, non è da escludere che nel 2017 i cittadini britannici votino per una Brexit, e questo potrebbe portarsi appresso un nuovo referendum scozzese e fenomeni di dissociazione in altri Paesi. E non è impossibile che circostanze domestiche o internazionali ora imprevedibili mettano in allarme i mercati internazionali con conseguenti fughe speculative dai Paesi più deboli.
È in questo contesto internazionale che si colloca, nel 2016, l’azione del nostro governo. Il 2016 è un anno cruciale, quello in cui probabilmente si deciderà — col referendum costituzionale dell’autunno — se Renzi potrà presentarsi con buone possibilità di vittoria alle prossime elezioni politiche, nel 2018 o, anticipandole, nel 2017. Oppure se, sconfitto, rassegnerà le proprie dimissioni. Il governo sta già usando tutta la flessibilità di manovra che l’Europa tedesca gli poteva/voleva dare e, se non parte quest’anno una crescita del reddito più robusta, è assai difficile che ne possa ottenere dell’altra nel 2017. Il disegno della legge di Stabilità è sicuramente criticabile. Ma molte delle critiche, di destra e di sinistra, non derivano dalla maggiore attuabilità ed efficacia di un disegno alternativo, bensì da una opposizione fondata su motivazioni politico-ideologiche: non ci si rende conto che stiamo litigando nel salone da ballo del Titanic mentre è nell’interesse nazionale disporre di un governo stabile, seppure imperfetto; un governo sul quale gli italiani, ma soprattutto l’Europa e i mercati, possano fare affidamento. Non voglio neppure pensare a che cosa potrebbe succedere se l’Italia si ritrovasse, a fine d’anno, con un governo dimissionario.