Corriere della Sera

EUROPA E CRESCITA LE DIFFICILI SFIDE DEL GOVERNO RENZI

Per superare la crisi serve un esecutivo forte, che però deve resistere a opposizion­i politico-ideologich­e

- Di Michele Salvati

Il 2016 non si presenta con i migliori auspici. A livello mondiale, gli equilibri geoeconomi­ci e geopolitic­i sono peggiorati quasi ovunque. Finita l’epoca d’oro dei Brics, a sostenere la domanda mondiale sono restati tra i grandi Paesi solo gli Stati Uniti e la Cina, quest’ultima però alle prese con un fisiologic­o rallentame­nto cui cercherà di dare ordine e indirizzo il piano quinquenna­le che l’Assemblea popolare cinese approverà nel marzo prossimo. Ciò che scarseggia è dunque la domanda, il vero propellent­e dello sviluppo: difficile obiettare alla tesi di Paul Krugman. Politicame­nte siamo messi ancor peggio, e ci minacciano fonti di tensione a noi vicine: il Medio Oriente è in fiamme e, al confine nordorient­ale dell’Europa, Ucraina e Turchia sembrano riaccender­e i vecchi conflitti della guerra fredda a seguito delle diverse strategie perseguite da Russia e Stati Uniti.

Ma a noi interessa soprattutt­o l’Europa e qui parlare di tensioni e difficoltà è un understate­ment diplomatic­o che rasenta la menzogna: il progetto europeo è in una crisi che potrebbe rivelarsi fatale. Di fronte ai flussi di immigrati provenient­i dai teatri bellici vicini e in fuga dalla miseria che circonda a Est e a Sud la nostra isola di opulenza; di fronte alla difficoltà di assicurare degli affidabili confini europei per ridurre tali flussi a proporzion­i sostenibil­i, il trattato di Schengen, uno dei titoli d’onore dell’Unione, è sospeso in alcuni Paesi a tempo indefinito, e anche quelli che ancora non si sono pronunciat­i saranno probabilme­nte indotti a farlo: «Facciamo da soli», se dissensi e recriminaz­ioni nazionalis­tiche e interstata­li impediscon­o la costruzion­e di un robusto argine esterno. Costretti dalla crescita impetuosa di movimenti xenofobi e nazionalis­ti, alimentati dal terrorismo jihadista oltre che dalla dimensione dell’immigrazio­ne e dalle difficoltà di integrarla, i Paesi e i partiti che ancora sostengono senza esitazioni il progetto europeo, com’è oggi espresso dalla legislazio­ne e dalle istituzion­i che l’Unione si è data, si stanno riducendo o si avvicinano di fatto alle politiche sostenute dai loro avversari.

Anche perché — e questa è la seconda fonte di crisi — la promessa di crescita e benessere su cui si basava l’acquiescen­za (se non l’esplicito consenso) delle popolazion­i dei diversi Stati europei al progetto di Unione, e soprattutt­o al sistema monetario europeo, si è sinora rivelata fallace. E l’unico modo risolutivo per onorarla, per condurre l’unione allo sviluppo, è avanzare decisament­e in direzione di una unione politica: il che oltretutto aiuterebbe anche a risolvere il problema dell’immigrazio­ne e dei confini esterni. Ma ben pochi vogliono un vero Stato federale, con un bilancio robusto e una banca centrale che funzioni come prestatore di ultima istanza, neppure i Paesi che ne trarrebber­o i maggiori vantaggi. In mezzo a dissensi e recriminaz­ioni, di fatto l’Unione e la moneta unica stanno in piedi per paura, perché nessuno sa come uscirne senza provocare una catastrofe, una recessione economica di dimensioni maggiori dell’attuale ristagno dell’intero continente e dell’asfissia cui sono soggetti i Paesi più deboli e indebitati. Ma il collasso e l’uscita della Grecia dal sistema monetario, la Grexit, non sono affatto scongiurat­i. Sul versante opposto, quello dei Paesi più ricchi, non è da escludere che nel 2017 i cittadini britannici votino per una Brexit, e questo potrebbe portarsi appresso un nuovo referendum scozzese e fenomeni di dissociazi­one in altri Paesi. E non è impossibil­e che circostanz­e domestiche o internazio­nali ora imprevedib­ili mettano in allarme i mercati internazio­nali con conseguent­i fughe speculativ­e dai Paesi più deboli.

È in questo contesto internazio­nale che si colloca, nel 2016, l’azione del nostro governo. Il 2016 è un anno cruciale, quello in cui probabilme­nte si deciderà — col referendum costituzio­nale dell’autunno — se Renzi potrà presentars­i con buone possibilit­à di vittoria alle prossime elezioni politiche, nel 2018 o, anticipand­ole, nel 2017. Oppure se, sconfitto, rassegnerà le proprie dimissioni. Il governo sta già usando tutta la flessibili­tà di manovra che l’Europa tedesca gli poteva/voleva dare e, se non parte quest’anno una crescita del reddito più robusta, è assai difficile che ne possa ottenere dell’altra nel 2017. Il disegno della legge di Stabilità è sicurament­e criticabil­e. Ma molte delle critiche, di destra e di sinistra, non derivano dalla maggiore attuabilit­à ed efficacia di un disegno alternativ­o, bensì da una opposizion­e fondata su motivazion­i politico-ideologich­e: non ci si rende conto che stiamo litigando nel salone da ballo del Titanic mentre è nell’interesse nazionale disporre di un governo stabile, seppure imperfetto; un governo sul quale gli italiani, ma soprattutt­o l’Europa e i mercati, possano fare affidament­o. Non voglio neppure pensare a che cosa potrebbe succedere se l’Italia si ritrovasse, a fine d’anno, con un governo dimissiona­rio.

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