Corriere della Sera

Muti: difendiamo l’opera italiana

Il Maestro difende l’opera italiana ma critica chi inventa stereotipi «Nel nostro Paese non si capisce l’importanza didattica della musica per formare un buon cittadino»

- di Pierluigi Panza con Girardi, Manin

«No alle false tradizioni». Riccardo Muti incontra i lettori del Corriere e difende l’opera italiana. «Si stenta a capire l’importanza della musica per formare i buoni cittadini».

Le regie che tradiscono i libretti, la scarsa dignità accordata all’opera italiana, la necessità di una migliore formazione musicale... Con piglio ironico e molto personale, ieri, a Milano, Riccardo Muti è tornato su alcune sue ricorrenti battaglie. Lo ha fatto, prima in un incontro con il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, nella Sala Buzzati del quotidiano; poi, in serata, alla trasmissio­ne «Che tempo che fa» condotta da Fabio Fazio. L’occasione è stata la presentazi­one della nuova collana di 32 registrazi­oni La musica è la mia vita in edicola con il Corriere, un modo «per far apprezzare il lavoro di Muti attraverso le sue stesse scelte», ha illustrato Fontana.

Anzitutto per Muti è urgente sottolinea­re l’identità italiana della musica. «L’Italia è il Paese della musica. Guido d’Arezzo ha dato il nome alle note, la Camerata dei Bardi ha inventato il teatro d’opera, Corelli il concerto grosso, la città di Cremona gli strumenti e Scarlatti non ha nulla da invidiare a Bach... Pure Respighi, Sgambati e Busoni hanno cercato di difendere l’italianità nei confronti del sinfonismo tedesco». Il problema è che parte della critica e una diffusa vulgata tra i melomani hanno generato stereotipi che generano discredito verso alcune interpreta­zioni della nostra musica. Per esempio, il primo Verdi. «Si ripete che le partiture del primo Verdi siano rozze. Non è vero, sono eseguite male — racconta Muti —. In altre opere di Verdi si pretendono acuti senza senso. Rigoletto, che è un’unica arcata musicale, è diventata un’opera piena di acuti che Verdi non ha mai scritto. Aida è urlata anche dove c’è scritto pianissimo. Per non aver urlato, Bergonzi fu contestato a Parma e i loggionist­i, anziché ricredersi, dissero che aveva sbagliato Verdi a scrivere pianissimo. Bisogna stare attenti alla tradizione quando è codificata in maniera falsa. Altrimenti si finisce con il trattare la nostra opera come un musical».

Ci sono poi i pregiudizi verso alcune opere. «Al Maggio fiorentino, negli anni Settanta, io e Vlad decidemmo di fare Cavalleria rusticana e Pagliacci. In Consiglio comunale fecero una battaglia contro e fummo accusati di fascismo. Poi la fece Karajan, e oggi Thielemann... Alla Scala, la trilogia popolare verdiana è tornata solo dopo vent’anni a causa dei pregiudizi».

Anche le troppe direzioni musicali per un singolo direttore sono motivo di perplessit­à. «Anch’io, negli anni Settanta, ho diretto insieme le filarmonic­he di Londra, Filadelfia e Firenze... Poi ne ho lasciata una. Se si vuole fare il direttore musicale seriamente, lo si deve fare per una sola istituzion­e. Al massimo per un teatro e una filarmonic­a». Inoltre, per ogni cosa c’è un suo tempo. «Ho diretto Don Giovanni a quasi cinquant’anni e dicevo a me stesso: “Come osi?”. Oggi lo dirigono anche i ragazzini: come è possibile?».

Ma più che i colleghi, Muti bacchetta i registi. «Strehler non era solo un grande uomo di teatro, conosceva bene la musica. La sua regia non era come le abominevol­i regie che si vedono oggi e vengono da alcuni lodate. Per fortuna non faccio il critico! Ho visto in television­e un po’ della Traviata con regia di Thcerniako­v («prima» della Scala del 2013, ndr), con Violetta che fa la pasta intorno ad Alfredo e con il giardinier­e costretto ad ascoltarla per dare un senso alla regia. L’ho trovata un insulto a Verdi e all’Italia. Io non sono un conservato­re; ho fatto nove regie con Ronconi, anche contestate, ma intelligen­ti. Quando la parte registica è assurda offende l’opera con baggianate che il giorno dopo, specialmen­te in Germania, finiscono sui giornali». Ma una migliore disposizio­ne verso la musica italiana può rinascere solo partendo dalla scuola. «La formazione nei conservato­ri non è sempre adeguata e, soprattutt­o, non c’è uno sbocco. Le orchestre sono poche e non c’è posto. Se si insegnasse più musica nelle scuole ci sarebbe posto come docenti. Quello che in Italia non si capisce è l’importanza didattica della musica per formare un buon cittadino: una orchestra è l’immagine di una società civile, è fatta di un insieme di persone che non si devono dar fastidio e raggiunger­e un obiettivo comune».

L’ultimo pensiero di Muti è per la sua città di nascita, Napoli (i suoi erano di Molfetta). «Dirigo la Filarmonic­a di Vienna da 46 anni. Eppure, quando ho diretto il concerto di Capodanno ( 1993, 1997, 2000 e 2004, ndr) su un giornale, scrissero: “Cosa ci fa un napoletano sul podio di Vienna?”. Pregiudizi. Non sanno che, ai tempi di Strauss, se c’era una capitale in Italia, quella era Napoli. Quest’anno sono i 200 anni dalla morte di Paisiello, speriamo che qualcuno se ne ricordi».

Tempi adeguati Come è possibile che oggi i ragazzini dirigano «Don Giovanni»? A me stupì farlo a 50 anni

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 ??  ?? Conversazi­one Il maestro Riccardo Muti (a destra), intervista­to dal direttore del «Corriere» Luciano Fontana nell’incontro organizzat­o con il pubblico in sala Buzzati
Conversazi­one Il maestro Riccardo Muti (a destra), intervista­to dal direttore del «Corriere» Luciano Fontana nell’incontro organizzat­o con il pubblico in sala Buzzati

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