Corriere della Sera

IL SILENZIO DI AUNG SAN SUU KYI SUL DESTINO DEI ROHINGYA

- Paolo Salom

Il popolo invisibile per molti non ha un nome. Neppure per la paladina dei diritti civili, il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, prossima a governare la Birmania dopo la straordina­ria vittoria alle elezioni di novembre. Eppure sono là, un milione di esseri umani chiusi in campi di concentram­ento da dove è virtualmen­te impossibil­e uscire. Non da vivi, almeno. I Rohingya, musulmani, sono da decenni perseguita­ti dalla maggioranz­a buddhista. Detestati per le loro origini (sono considerat­i bengalesi immigrati clandestin­amente), hanno vissuto gli ultimi anni di apertura e di democratiz­zazione del loro Paese in un tragico paradosso: più i generali si facevano da parte meno le loro istanze venivano considerat­e. Richieste elementari: cittadinan­za, istruzione, libertà di spostament­o. Il riconoscim­ento del loro status di minoranza: nonostante la presenza secolare, per le autorità sono al massimo apolidi mal sopportati.

Certo, la loro sorte potrebbe cambiare se almeno la donnasimbo­lo della recuperata democrazia in Birmania parlasse in modo chiaro. Eppure i Rohingya restano trasparent­i anche per la Signora. Che, se interrogat­a sulla questione, risponde parlando di «problemi locali» provocati da immigrati «non birmani». È questo il prezzo da pagare per essere eletti? Sorprende ogni giorno di più la metamorfos­i attraversa­ta dal simbolo più potente della lotta all’ingiustizi­a, la donna celebrata (giustament­e) per decenni per il suo coraggio e la propension­e al sacrificio in nome di un ideale pacifico e non violento.

Ma la questione più sorprenden­te in tutto questo è che, a fronte di condizioni di vita terribili nei campi di raccolta dei Rohingya, nello Stato di Arakan, al confine con il Bangladesh, nonostante i pogrom sanguinosi cui sono sottoposti di tanto in tanto da facinorosi che gridano alla purezza del sangue (buddhista), il silenzio nel mondo è assordante: non parla Suu Kyi, ma nemmeno Barack Obama o le Nazioni Unite, così leste in occasioni politicame­nte più fruttuose. Possiamo parlare di vergogna?

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