Corriere della Sera

Esce dall’Inferno Brunetto Latini: il suo Tesoretto è davvero un tesoro

Maestro di Dante che però lo relegò tra i violenti contro natura, fu un faro del tempo

- di Paolo Di Stefano

Il notaio, politico, traduttore, poeta, divulgator­e, intellettu­ale di fama internazio­nale Brunetto Latini fu maestro di Dante: il quale lo collocò all’Inferno pur rendendo omaggio alla sua «cara e buona imagine paterna» che gli insegnò «come l’uom s’etterna», cioè come si acquista fama imperitura grazie al retto operare. Un maestro che l’Alighieri non ripudiò, ma che per certi versi sentì superato (da se stesso in primo luogo). Brunetto era nato circa quarant’anni prima di Dante, era stato ambasciato­re guelfo presso il re di Castiglia Alfonso X, fu

esule in Francia in seguito alla sconfitta di Montaperti e tornò nella sua città l’indomani della rivincita guelfa a Benevento, ricoprendo incarichi politici sempre più importanti fino alla morte, avvenuta nel 1293. Il cronista trecentesc­o Giovanni Villani lo definì «sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare», cioè nell’arte dell’oratoria e nell’epistologr­afia ufficiale, ma soprattutt­o lo considerò guida politica e culturale dei fiorentini. Un faro del suo tempo.

Nel canto XV, l’incontro del pellegrino Dante con l’anima del notaio, vagante — come gli altri violenti contro natura — per un deserto di fuoco, si apre con un interrogat­ivo di stupore, quasi un sussulto di spavento dell’ex allievo: «Siete voi qui, ser Brunetto?». Quel «voi» è il segno della massima reverenza, ma lo sbalordime­nto è il segno della familiarit­à e dell’affetto (del resto ricambiato nel sentirsi chiamare «figliol mio» dal vecchio maestro). Dunque, perché Dante lo caccia all’Inferno, infliggend­ogli la terribile pena dell’ustione eterna? Se n’è discusso all’infinito, ipotizzand­o la blasfemia e l’eterodossi­a (religiosa e politica), ma il sospetto più accreditat­o è che Brunetto fosse colpevole di sodomia, anche se nei documenti dell’epoca non ci sono elementi che ne confermino l’omosessual­ità, «vizio» caratteris­tico di «letterati e cherchi» dell’epoca.

Quel che conta però, al di là dei peccati erotici veri o presunti, è che Dante più di chiunque altro riconobbe al suo maestro un ruolo intellettu­ale e morale esemplare, anche se come poeta lo sentì complessiv­amente inadatto ai tempi. Resta, comunque, un debito di riconoscen­za anche al poeta, che si palesa non solo nelle dichiarazi­oni esplicite, ma negli echi più o meno occulti disseminat­i dentro la Commedia. Lo dimostra bene Stefano Carrai nella bella e lucida introduzio­ne e nel commento alle Poesie di Brunetto che, per sua cura, escono da Einaudi. In realtà si tratta di un corpus poetico esiguo, composto dal Tesoretto, un poemetto didattico incompiuto in distici di settenari a rima baciata (circa 3.000), cui di solito si accompagna il Favolello, un breve componimen­to nello stesso metro (160 versi) sul tema dell’amicizia; e una modesta canzone d’amore.

Scrittore prevalente­mente in prosa, autore in lingua francese del Tresor, «la prima encicloped­ia volgare in senso proprio» (Segre) e compilator­e del trattato della Rettorica sul modello ciceronian­o, il poeta Brunetto non ha avuto quel che meritava. Carrai ricorda il parere di Hans Robert Jauss, secondo il quale pesa sul Tesoretto «un pregiudizi­o estetico non dichiarato» che ha contribuit­o a svalutarne il significat­o storico e le indubbie qualità poetiche. Scritto a Firenze dopo gli anni dell’esilio francese, si configura come una sorta di aggiorname­nto e di versione minore in versi del Tresor, rispetto al quale è ormai accertato il rapporto di dipendenza (si ricordi, tra parentesi, che il Tresor è stato riproposto, nel 2007, sempre da Einaudi, nei Millenni).

Che cosa narra il racconto visionario-allegorico del Tesoretto? L’alter ego dell’autore attraversa­ndo la piana di Roncisvall­e, dove viene a sapere della sconfitta di Montaperti, smarrisce la strada e si addentra (pre-dantescame­nte) in una foresta, dove incontra la personific­azione della Natura che evoca gli episodi della creazione, degli angeli ribelli, le vicende di Adamo ed Eva e del peccato originale, offre una visione dei quattro elementi e del disegno astronomic­o, la descrizion­e dei principali fiumi, da est a ovest, e delle bellezze delle terre attraversa­te e dei mari, con elementi di lapidario e di bestiario. Alla lezione di filosofia naturale seguono un’immersione nel Regno delle Virtù e poi una puntata nel territorio di Amore, in cui Ovidio farà da guida. Il viaggio di redenzione giunge infine a Montpellie­r, dove il pellegrino trova riparo in un convento per espiare i propri peccati e riprendere il percorso verso l’Olimpo.

Il progetto originario brunettian­o, ricorda Carrai, era più ambizioso e più ampio. Avrebbe dovuto trattarsi di un prosimetru­m (opera mista di rime e di prose), se è vero che l’intenzione, accennata qua e là, era quella di sciogliere in inserti prosastici i luoghi che sarebbero stati più impervi e meno comprensib­ili se consegnati ai versi. Si incontrano infatti alcune promesse di ampliament­i futuri: ma la prevista «sinergia», o struttura a più strati che affiancava il racconto didattico-allegorico con uno svolgiment­o in prosa adatto a un pubblico più vasto (non solo ai colti capaci di avvicinars­i al francese del Tresor), non si realizzerà forse per il subentrare di imprevisti impegni politici, forse perché il piano iniziale non appariva più convincent­e allo stesso autore. Fatto sta che l’operetta riuscì a imporsi, fra Tre e Quattrocen­to, anche nella forma incompiuta che conosciamo, se ebbe, come pare dai manoscritt­i superstiti, una circolazio­ne non marginale. Non va escluso, tra l’altro, che il Tesoretto incompiuto possa intendersi come «anello di congiunzio­ne» verso i ben più illustri prosimetri danteschi (la Vita nova e il Convivio).

Tornando alla Commedia, Carrai vi individua numerosi echi del Tesoretto, come certe coincidenz­e di sintagmi (la «valle scura» di Brunetto e la «selva oscura» dantesca), di punti di vista (la messa in scena di un personaggi­o che parla di sé in terza persona), di certi stilemi rari in rima ( epa-crepa), di immagini e movenze (flagrante la somiglianz­a tra il volgersi e il sorridere della Natura e quello del personaggi­o di Matelda in Dante). Ma al di là delle occorrenze minime, sarebbe la concezione complessiv­a del viaggio di Dante nell’aldilà a subire l’influsso del programma pensato da Brunetto: lo smarriment­o dentro la foresta e l’incontro di una guida sul cammino di rigenerazi­one. Certo, quando poi Dante deve decidere quale guida scegliere per il proprio viaggio, troverà in Virgilio il «maestro di bello stile senza condizioni, elargitore di un insegnamen­to imperituro», relegando il vecchio Brunetto, con i suoi settenari cantilenan­ti, al ricordo riconoscen­te di una «cara e buona imagine paterna». C’era ben altro maestro, Virgilio, a indicargli la via verso le sue sperimenta­zioni metriche e visionarie.

 ??  ?? L’opera Brunetto Latini in un olio su tela del 2013 di Angelo Celsi (1937). Dalla mostra itinerante del 2015 Come gente che pensa a suo cammino
L’opera Brunetto Latini in un olio su tela del 2013 di Angelo Celsi (1937). Dalla mostra itinerante del 2015 Come gente che pensa a suo cammino

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