Lampre, longevità, globalizzazione e famiglia
Rivoluzione per vincere nel team italiano del World Tour dove gli azzurri sono in minoranza
Non di soli Nibali e Aru può vivere il ciclismo italiano. Un tempo il più vincente del pianeta, oggi semplicemente il più presente: 53 azzurri vestiranno nel 2016 la maglia di una delle 18 squadre del World Tour, la Champions League del ciclismo, disputandosi le 27 corse in calendario.
Siamo di più dei rivali storici francesi e belgi, vinciamo però meno gare importanti di spagnoli, inglesi, tedeschi. Tra tante incertezze, teniamoci stretta l’unica squadra World Tour, quella Lampre Merida che, in un mondo dove gli sponsor evaporano rapidamente, vanta un record di longevità: Lampre, che produce profilati in alluminio in Brianza, sponsorizza dal 1990. E la prossima settimana inaugura la stagione di corse in Australia, al Tour Down Under.
L’anima è quella classica del ciclismo italiano, fondato su tradizione (a guidare il gruppo da sempre Beppe Saronni) e passione familiare, ma la struttura guarda al mondo, dove sono diffusi gli interessi dell’azienda. Il team manager Brent Copeland viene dalla MotoGp ed è sudafricano, come lo scalatore Meintjes; il giovane più promettente è lo sloveno Mohoric, uno degli uomini di punta, Tsgabu Grmay, è etiope. L’Asia è rappresentata da cinesi, giapponesi e taiwanesi, che in patria sono eroi delle due ruote. Gli italiani sono in minoranza numerica (10 su 28, meno di quanti ne abbia sotto contratto la kazaka Astana) e per questo dovranno sgomitare per dimostrare il loro valore.
«Nel 2016 — spiega Copeland — abbiamo rivoluzionato la struttura tecnica, mediando tra il vecchio sistema italiano dove ogni atleta si allena a casa per conto suo e quello inglese, in cui tutti seguono lo stesso coach negli stage di preparazione. Non siamo favorevoli ai lunghi ritiri di massa in altura, che magari fanno bene a un corridore e male a dieci». Un giovane medico con competenze di allenatore, Luca Pollastri, coordinerà il lavoro di sei coach «eticamente certificati», tra cui spicca Michele Bartoli, ex eroe delle classiche belghe. «Il ciclismo di oggi non è più eurocentrico — spiega Copeland — ma viaggia per dieci mesi l’anno in cinque continenti, somigliando alla Formula 1. Qui però si fa molta più fatica fisica e se si sbagliano tempi di allenamento e recupero si rischia grosso. Il secondo obiettivo è prepararsi bene, il primo evitare le malattie».
Il ciclismo oggi è anche cucire programmi su misura per atleti lontani dallo standard culturale e geografico classico. Tsgabu Grmay dieci anni fa si sarebbe trasferito in Toscana, tagliando i ponti col suo Paese. Ora invece si allena stabilmente sugli altipiani di Addis Abeba, testimonial importante per i giovani etiopi. Va forte anche con 40 gradi, ma non avendo salite lunghe a disposizione deve metabolizzare quelle italiane e francesi: lo scorso anno mangiò così tanto durante il Giro, per paura delle crisi di fame, da ingrassare di due chili.
Resta il fatto che per una squadra italiana la vittoria di un corridore azzurro conta molto. Lo sa bene Diego Ulissi che, dopo una stagione tormentata per una surreale vicenda di doping/non doping, nel 2015 scaricò tutta la sua rabbia a Fiuggi al Giro d’Italia, deludendo poi al Mondiale di Richmond, dove era la punta di Davide Cassani. Copeland lo aspetta al varco nelle Ardenne, su molti traguardi del Giro e forse anche ai Giochi di Rio. Attesi al salto di qualità anche
Il budget è di 10 milioni «ma Saronni ci ha insegnato a fare con quello che abbiamo»
La lezione
due velocisti, il maturo Modolo e il giovane Cimolai.
Lampre ha anticipato la riforma del ciclismo del 2017, unendo le sue forze a quelle del team dilettantistico Coolpack, uno dei più quotati in Italia, per creare una filiera di giovani da avviare al professionismo. Certo, c’è il problema non piccolo del budget. Qui siamo attorno ai 10 milioni di euro a stagione, quasi tre volte meno dei team di punta. «Dietro di noi — spiega Copeland — non ci sono soldi dal governo kazako o dal gas russo. Beppe Saronni ci ha insegnato a vivere bene con ciò che abbiamo. Non possediamo il bus con le pareti che cambiano colore durante i viaggi per rilassare i corridori. Ma pensiamo che creare attorno a loro un’atmosfera di famiglia forse conti di più».