L’omaggio della Galleria Blu a 25 anni dalla scomparsa Santomaso, l’artista della Laguna che amava il traffico di Milano
Suite friulana, Contrappunto, Passeggiando con sospetto, Sentimento della natura: sono alcuni dipinti (1960-1983) dell’omaggio ( La musica del colore) che la Galleria Blu di Milan o d e d i ca a G i u s e p p e Santomaso per i 25 anni dalla morte (sino al 12 febbraio). Potrebbe sembrare strano, ma di Milano, l’artista veneziano amava il traffico automobilistico, il potersi spostare da un punto all’altro della città senza attraversare ponti, costeggiare canali, salire e scendere scale. Insomma il contrario di quanto faceva a casa sua.
Straordinario pittore, Bepi. E, sul piano umano, un ragazzo dagli occhi chiari, capace ancora — a 80 anni — di meravigliarsi della bellezza che vedeva attorno a sé. L’ultima volta lo avevo incontrato casualmente in piazza Scala, verso la fine degli anni Ottanta. Santomaso stava aspettando il verde del semaforo. Un breve saluto, subito interrotto da un «Guarda quela lì, che meraviglia», rivolto ad una bellissima turista che appariva e scompariva nei tre archi del portico neoclassico del Piermarini. Aveva ragione. «Cosa vuoi, alla mia età posso solo guardarle», aveva concluso attraversando l’incrocio per raggiungere via Verdi. Era tenerissimo, Bepi, anche in queste espressioni che svelavano il suo cuore di fanciullo. Come le sue Lettere a Palladio, le sue Improvvisazioni, i Capricci, i Riverberi e le luci che, altrove, gli giungevano dall’Adriatico. Luci che, assieme ai colori, «egli — aveva scritto Piero Dorazio — aveva ereditato dai grandi maestri veneziani (da Tintoretto a Tiepolo) e quei toni di grigio che distinguevano Guardi e Canaletto; e anche improvvise fratture luminose come quelle che riusciva ad ottenere con tanta spontaneità quel folle di Turner».
Giuseppe Santomaso (Venezia, 1907 – 1990), Contrappunto, 1984
Tintoretto e Tiepolo, certamente. Ma anche i mosaici di San Marco e la Madonna con Bambino di Jacopo Bellini, le ascendenze bizantine di Paolo Veneziano e le Storie di Sant’Orsola del Carpaccio. Un occhio all’antico e l’altro al moderno. Per lui, moderno voleva dire Matisse, Picasso, i Fauves, Kandinsky. E Braque, incontrato da Santomaso per la prima volta, nel ’39, a Parigi. Una diecina di anni dopo, passeggiando a Venezia, nell’atrio della basilica di San Marco, assieme al maestro francese, Bepi gli aveva detto che la sua pittura Era uno straordinario pittore. Sempre capace di meravigliarsi della bellezza intorno a sé
gli ricordava «un mosaico strettamente allusivo e nitido negli accordi dei colori».
Già, perché tutta la pittura del mondo era da lui ricondotta alla città lagunare. Quando — assieme a Birolli, Cassinari, Guttuso, Leoncillo, Morlotti, Pizzinato, Vedova e Viani — aderisce al «Fronte nuovo delle arti», la sua tavolozza resta nell’alveo in cui è nata: Venezia. Con un di più di lirismo. «La nostra cultura — preciserà — ha scoperto l’importanza di distruggere le forme per ricostruirle con il colore. Quando mi trovo a passeggiare Aveva ereditato luci e colori dai maestri veneziani come Tintoretto e Tiepolo sulle Zattere, ho questi tre momenti: la fantasmagorica scena ch’è il canale della Giudecca e il Redentore, le Zitelle, e San Giorgio di Palladio. Vivo questo momento di bellezza in cui tutto si stempera nella luce madreperlacea della laguna. Ma questo cielo e queste pietre d’Istria bianche che si stagliano, che creano quest’architettura fantastica, devo dire che io non le penso in termini culturali; tutte queste cose le vivo, le assorbo. Improvvisamente, nel ridarle, nel riproporle, nel restituirle attraverso un processo per me misterioso, mi accorgo a posteriori che quel quadro lì deve chiamarsi Lettera a Palladio perché io in quell’incedere ho avvertito che vivevo dentro uno spazio storico, che era quello rinascimentale veneziano e che, poi, stratificando tutte le mie esperienze, ci avevo messo dentro e gli impressionisti e tutte le altre diavolerie che man mano l’uomo vive quotidianamente » . Forse pensava al Ruskin de Le pietre di Venezia per il quale il colore non era solo «splendore di tinte mutevoli nei riflessi dell’acqua o nell’atmosfera», ma anche «improvviso costruttivo, gusto di ciò che è asimmetrico, vario, irregolare come la vita stessa».
Un colore steso a strati, quello di Santomaso. Grandi campiture spezzate da fasci di rossi e di blu, di neri e di azzurri, di bianchi. L’artista evoca, ricorda, narra con un impianto che anche se spesso è stato paragonato ad Afro, in realtà assume una propria fisionomia perché giunge attraverso il filtro d’un Tiepolo e d’un Matisse, con una carica suggestiva di biacche dove si specchia la laguna. Il linguaggio? Semplice, quasi elementare. É come se, col tempo, la voce di un grande tenore diventasse più acuta. S’era già detto: qui il do di petto si tinge di rosso.