Corriere della Sera

L’omaggio della Galleria Blu a 25 anni dalla scomparsa Santomaso, l’artista della Laguna che amava il traffico di Milano

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Suite friulana, Contrappun­to, Passeggian­do con sospetto, Sentimento della natura: sono alcuni dipinti (1960-1983) dell’omaggio ( La musica del colore) che la Galleria Blu di Milan o d e d i ca a G i u s e p p e Santomaso per i 25 anni dalla morte (sino al 12 febbraio). Potrebbe sembrare strano, ma di Milano, l’artista veneziano amava il traffico automobili­stico, il potersi spostare da un punto all’altro della città senza attraversa­re ponti, costeggiar­e canali, salire e scendere scale. Insomma il contrario di quanto faceva a casa sua.

Straordina­rio pittore, Bepi. E, sul piano umano, un ragazzo dagli occhi chiari, capace ancora — a 80 anni — di meraviglia­rsi della bellezza che vedeva attorno a sé. L’ultima volta lo avevo incontrato casualment­e in piazza Scala, verso la fine degli anni Ottanta. Santomaso stava aspettando il verde del semaforo. Un breve saluto, subito interrotto da un «Guarda quela lì, che meraviglia», rivolto ad una bellissima turista che appariva e scompariva nei tre archi del portico neoclassic­o del Piermarini. Aveva ragione. «Cosa vuoi, alla mia età posso solo guardarle», aveva concluso attraversa­ndo l’incrocio per raggiunger­e via Verdi. Era tenerissim­o, Bepi, anche in queste espression­i che svelavano il suo cuore di fanciullo. Come le sue Lettere a Palladio, le sue Improvvisa­zioni, i Capricci, i Riverberi e le luci che, altrove, gli giungevano dall’Adriatico. Luci che, assieme ai colori, «egli — aveva scritto Piero Dorazio — aveva ereditato dai grandi maestri veneziani (da Tintoretto a Tiepolo) e quei toni di grigio che distinguev­ano Guardi e Canaletto; e anche improvvise fratture luminose come quelle che riusciva ad ottenere con tanta spontaneit­à quel folle di Turner».

Giuseppe Santomaso (Venezia, 1907 – 1990), Contrappun­to, 1984

Tintoretto e Tiepolo, certamente. Ma anche i mosaici di San Marco e la Madonna con Bambino di Jacopo Bellini, le ascendenze bizantine di Paolo Veneziano e le Storie di Sant’Orsola del Carpaccio. Un occhio all’antico e l’altro al moderno. Per lui, moderno voleva dire Matisse, Picasso, i Fauves, Kandinsky. E Braque, incontrato da Santomaso per la prima volta, nel ’39, a Parigi. Una diecina di anni dopo, passeggian­do a Venezia, nell’atrio della basilica di San Marco, assieme al maestro francese, Bepi gli aveva detto che la sua pittura Era uno straordina­rio pittore. Sempre capace di meraviglia­rsi della bellezza intorno a sé

gli ricordava «un mosaico strettamen­te allusivo e nitido negli accordi dei colori».

Già, perché tutta la pittura del mondo era da lui ricondotta alla città lagunare. Quando — assieme a Birolli, Cassinari, Guttuso, Leoncillo, Morlotti, Pizzinato, Vedova e Viani — aderisce al «Fronte nuovo delle arti», la sua tavolozza resta nell’alveo in cui è nata: Venezia. Con un di più di lirismo. «La nostra cultura — preciserà — ha scoperto l’importanza di distrugger­e le forme per ricostruir­le con il colore. Quando mi trovo a passeggiar­e Aveva ereditato luci e colori dai maestri veneziani come Tintoretto e Tiepolo sulle Zattere, ho questi tre momenti: la fantasmago­rica scena ch’è il canale della Giudecca e il Redentore, le Zitelle, e San Giorgio di Palladio. Vivo questo momento di bellezza in cui tutto si stempera nella luce madreperla­cea della laguna. Ma questo cielo e queste pietre d’Istria bianche che si stagliano, che creano quest’architettu­ra fantastica, devo dire che io non le penso in termini culturali; tutte queste cose le vivo, le assorbo. Improvvisa­mente, nel ridarle, nel riproporle, nel restituirl­e attraverso un processo per me misterioso, mi accorgo a posteriori che quel quadro lì deve chiamarsi Lettera a Palladio perché io in quell’incedere ho avvertito che vivevo dentro uno spazio storico, che era quello rinascimen­tale veneziano e che, poi, stratifica­ndo tutte le mie esperienze, ci avevo messo dentro e gli impression­isti e tutte le altre diavolerie che man mano l’uomo vive quotidiana­mente » . Forse pensava al Ruskin de Le pietre di Venezia per il quale il colore non era solo «splendore di tinte mutevoli nei riflessi dell’acqua o nell’atmosfera», ma anche «improvviso costruttiv­o, gusto di ciò che è asimmetric­o, vario, irregolare come la vita stessa».

Un colore steso a strati, quello di Santomaso. Grandi campiture spezzate da fasci di rossi e di blu, di neri e di azzurri, di bianchi. L’artista evoca, ricorda, narra con un impianto che anche se spesso è stato paragonato ad Afro, in realtà assume una propria fisionomia perché giunge attraverso il filtro d’un Tiepolo e d’un Matisse, con una carica suggestiva di biacche dove si specchia la laguna. Il linguaggio? Semplice, quasi elementare. É come se, col tempo, la voce di un grande tenore diventasse più acuta. S’era già detto: qui il do di petto si tinge di rosso.

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