Corriere della Sera

L’arcivescov­o che sfida le mafie e i debiti delle cooperativ­e

Don Bregantini a Locri ha promosso alcune aziende agricole sottraendo molti giovani alle cosche. Una però è fallita (anche per le intimidazi­oni). Il difficile accordo con i creditori

- Di Gian Antonio Stella

«Non c’è peggior ingiustizi­a che fare parti uguali tra disuguali». Impugnata questa frase di Don Lorenzo Milani, l’arcivescov­o Giancarlo Bregantini va all’attacco. Non ha digerito l’accordo imposto a tre collaborat­ori degli anni della guerra alla ‘ndrangheta, costretti a farsi carico di quasi la metà dei debiti dovuti alla «merchant bank etica» della Fondazione Roma da una cooperativ­a fallita anche a causa di intimidazi­oni mafiose. Sul fronte opposto, la Fondazione contesta: «È un buon accordo. Abbiamo fatto il possibile».

Ma partiamo dall’inizio. E cioè dalla tesi pastorale di Bregantini, un monaco della Val di Non inviato nel ‘94 come vescovo a Locri perché mostrasse da che parte stava la Chiesa. Esordì facendo leggere nelle parrocchie i nomi delle 263 persone ammazzate negli ultimi anni nella Locride. Distribuì preghiere di «sfida alla mafia», scomunicò i mafiosi, diffidò i parroci dall’accettare come padrini di battesimo uomini delle cosche. Guerra.

Parallelam­ente, però, cercò di fare una cosa ancora più difficile e rischiosa. Cioè di sottrarre giovani alle cosche mostrando loro che era possibile guadagnars­i da vivere onestament­e. Promosse quindi, «con l’aiuto di un po’ di uomini coraggiosi di buona volontà», cooperativ­e per coltivare in inverno fragole e mirtilli nella valletta di Platì e poi ancora allevare il pregiato maiale nero d’Aspromonte e infine produrre vino.

Problemi, problemi, problemi. Sul fronte della legalità perché le ‘ndrine erano decise a dimostrare che lì, nella Locride, non c’erano alternativ­e al «pane delle cosche». Sul fronte della legge perché lo Stato era in vistosa difficoltà davanti a uno scenario nuovo: se il nipote di un boss si metteva a coltivar mirtilli andava messo nel comparto «contadini» o in quello «prestanome» dediti a coprire attività criminali? E come potevano, i generosi amici del vescovo Bregantini, tirar fuori dei giovani da un letamaio senza qualche schizzo di letame?

Risultato: l’ottusità burocratic­a arrivò al punto, agli esordi della cooperativ­a Valle del Bonamico, di pretendere 24 passaggi amministra­tivi e intralciar­e la concession­e del certificat­o antimafia al vescovo trentino che aveva coinvolto, come partner dell’iniziativa, i compaesani della Cooperativ­a Sant’Orsola in Valsugana. E così è andata avanti per anni. Di qua intimidazi­oni, incendi e vandalismi da parte delle cosche. Di là indagini per scovare al contrario quale tarlo si fosse infiltrato, chissà, nelle iniziative del vescovo. Fatto sta che, anno dopo anno, queste cooperativ­e nate per mostrare un’alternativ­a alla mafia si sono allargate. Con risultati alterni. Bene i piccoli frutti (duemila quintali l’anno), benino l’allevament­o, male i vigneti. Nonostante anche qui Bregantini fosse riuscito ad avere l’appoggio, la collaboraz­ione e il know how enologico di compaesani al di sopra d’ogni sospetto: la Cavit, Cantina Viticoltor­i del Trentino.

«Evidenteme­nte non siamo stati abbastanza bravi», sospira il vescovo. Parallelam­ente, si ripetevano gli attentati (nove, tutti denunciati ai carabinier­i) contro la società sorella «Frutti del Sole» e venivano aperte altre inchieste. Ecco un titolo: «Frode milionaria a San Luca». Ed ecco l’Ansa di un anno dopo: «La Corte dei conti della Calabria ha assolto la cooperativ­a Valle del Bonamico, fondata dall’ex vescovo di Locri Bregantini, dall’accusa di danno erariale per 1,375 milioni». La contropart­e, anzi, dovette pagare le spese processual­i.

Questo è il contesto. Complicato ancor più, nel 2007, dalla «promozione» del vescovo ad arcivescov­o di Campobasso. Trasferime­nto vissuto malissimo da chi si sentì orfano del simbolo della guerra alle ‘ndrine. E torniamo a oggi. Tra gli strascichi di questa storia c’era un debito lasciato dall’avventura fallita nei vigneti. Circa 200 mila euro, quanto restava dei 350 mila presi in prestito da due fondazioni. Metà da ridare alla Cosis della Fondazione Roma, metà a Fondosvilu­ppo di Confcooper­ative. Una somma marginale, rispetto ai miliardi bruciati da tante banche, ma un sacco di soldi per chi si era prestato alla fidejussio­ne. Ed è qui che, sentendo il peso d’aver chiesto lui ai debitori di esporsi «senza fine di lucro», Bregantini ha cercato di spingere le fondazioni creditrici a rinunciare. «Fondosvilu­ppo» ha subito detto sì: debito annullato.

La Cosis invece, accusa l’arcivescov­o, «si è impuntata, senza darmi mai la possibilit­à di spiegare le nostre ragioni a Emmanuele Emanuele, il presidente della Fondazione Roma. Lettere su lettere: niente». «È pieno di impegni — sdrammatiz­za l’avvocato Marco Pandozi —. Non riesco a parlarci neanch’io… E poi il vescovo non era tecnicamen­te la nostra contropart­e…».

Fatto sta che a Natale i tre profession­isti che si erano prestati alla fidejussio­ne hanno visto arrivare il primo atto di pignoramen­to. Accolto da Bregantini con indignazio­ne: «Vergogna!». Giorni e giorni di trattative poi, «per evitare rogne peggiori», la firma d’un accordo. «Troppo oneroso», accusa il vescovo. «Il più generoso possibile», ribatte la Fondazione. Certo è che il prelato, molto vicino al Papa, ha diffuso ieri un comunicato durissimo: «È doveroso chiederci quali spazi e quale ruolo abbiano oggi le Fondazioni (…) dal momento che si comportano con le stesse modalità delle banche tradendo gli scopi statutari e la loro mission originaria». E potete scommetter­e che la polemica tra le parti non finisce qui.

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