L’arcivescovo che sfida le mafie e i debiti delle cooperative
Don Bregantini a Locri ha promosso alcune aziende agricole sottraendo molti giovani alle cosche. Una però è fallita (anche per le intimidazioni). Il difficile accordo con i creditori
«Non c’è peggior ingiustizia che fare parti uguali tra disuguali». Impugnata questa frase di Don Lorenzo Milani, l’arcivescovo Giancarlo Bregantini va all’attacco. Non ha digerito l’accordo imposto a tre collaboratori degli anni della guerra alla ‘ndrangheta, costretti a farsi carico di quasi la metà dei debiti dovuti alla «merchant bank etica» della Fondazione Roma da una cooperativa fallita anche a causa di intimidazioni mafiose. Sul fronte opposto, la Fondazione contesta: «È un buon accordo. Abbiamo fatto il possibile».
Ma partiamo dall’inizio. E cioè dalla tesi pastorale di Bregantini, un monaco della Val di Non inviato nel ‘94 come vescovo a Locri perché mostrasse da che parte stava la Chiesa. Esordì facendo leggere nelle parrocchie i nomi delle 263 persone ammazzate negli ultimi anni nella Locride. Distribuì preghiere di «sfida alla mafia», scomunicò i mafiosi, diffidò i parroci dall’accettare come padrini di battesimo uomini delle cosche. Guerra.
Parallelamente, però, cercò di fare una cosa ancora più difficile e rischiosa. Cioè di sottrarre giovani alle cosche mostrando loro che era possibile guadagnarsi da vivere onestamente. Promosse quindi, «con l’aiuto di un po’ di uomini coraggiosi di buona volontà», cooperative per coltivare in inverno fragole e mirtilli nella valletta di Platì e poi ancora allevare il pregiato maiale nero d’Aspromonte e infine produrre vino.
Problemi, problemi, problemi. Sul fronte della legalità perché le ‘ndrine erano decise a dimostrare che lì, nella Locride, non c’erano alternative al «pane delle cosche». Sul fronte della legge perché lo Stato era in vistosa difficoltà davanti a uno scenario nuovo: se il nipote di un boss si metteva a coltivar mirtilli andava messo nel comparto «contadini» o in quello «prestanome» dediti a coprire attività criminali? E come potevano, i generosi amici del vescovo Bregantini, tirar fuori dei giovani da un letamaio senza qualche schizzo di letame?
Risultato: l’ottusità burocratica arrivò al punto, agli esordi della cooperativa Valle del Bonamico, di pretendere 24 passaggi amministrativi e intralciare la concessione del certificato antimafia al vescovo trentino che aveva coinvolto, come partner dell’iniziativa, i compaesani della Cooperativa Sant’Orsola in Valsugana. E così è andata avanti per anni. Di qua intimidazioni, incendi e vandalismi da parte delle cosche. Di là indagini per scovare al contrario quale tarlo si fosse infiltrato, chissà, nelle iniziative del vescovo. Fatto sta che, anno dopo anno, queste cooperative nate per mostrare un’alternativa alla mafia si sono allargate. Con risultati alterni. Bene i piccoli frutti (duemila quintali l’anno), benino l’allevamento, male i vigneti. Nonostante anche qui Bregantini fosse riuscito ad avere l’appoggio, la collaborazione e il know how enologico di compaesani al di sopra d’ogni sospetto: la Cavit, Cantina Viticoltori del Trentino.
«Evidentemente non siamo stati abbastanza bravi», sospira il vescovo. Parallelamente, si ripetevano gli attentati (nove, tutti denunciati ai carabinieri) contro la società sorella «Frutti del Sole» e venivano aperte altre inchieste. Ecco un titolo: «Frode milionaria a San Luca». Ed ecco l’Ansa di un anno dopo: «La Corte dei conti della Calabria ha assolto la cooperativa Valle del Bonamico, fondata dall’ex vescovo di Locri Bregantini, dall’accusa di danno erariale per 1,375 milioni». La controparte, anzi, dovette pagare le spese processuali.
Questo è il contesto. Complicato ancor più, nel 2007, dalla «promozione» del vescovo ad arcivescovo di Campobasso. Trasferimento vissuto malissimo da chi si sentì orfano del simbolo della guerra alle ‘ndrine. E torniamo a oggi. Tra gli strascichi di questa storia c’era un debito lasciato dall’avventura fallita nei vigneti. Circa 200 mila euro, quanto restava dei 350 mila presi in prestito da due fondazioni. Metà da ridare alla Cosis della Fondazione Roma, metà a Fondosviluppo di Confcooperative. Una somma marginale, rispetto ai miliardi bruciati da tante banche, ma un sacco di soldi per chi si era prestato alla fidejussione. Ed è qui che, sentendo il peso d’aver chiesto lui ai debitori di esporsi «senza fine di lucro», Bregantini ha cercato di spingere le fondazioni creditrici a rinunciare. «Fondosviluppo» ha subito detto sì: debito annullato.
La Cosis invece, accusa l’arcivescovo, «si è impuntata, senza darmi mai la possibilità di spiegare le nostre ragioni a Emmanuele Emanuele, il presidente della Fondazione Roma. Lettere su lettere: niente». «È pieno di impegni — sdrammatizza l’avvocato Marco Pandozi —. Non riesco a parlarci neanch’io… E poi il vescovo non era tecnicamente la nostra controparte…».
Fatto sta che a Natale i tre professionisti che si erano prestati alla fidejussione hanno visto arrivare il primo atto di pignoramento. Accolto da Bregantini con indignazione: «Vergogna!». Giorni e giorni di trattative poi, «per evitare rogne peggiori», la firma d’un accordo. «Troppo oneroso», accusa il vescovo. «Il più generoso possibile», ribatte la Fondazione. Certo è che il prelato, molto vicino al Papa, ha diffuso ieri un comunicato durissimo: «È doveroso chiederci quali spazi e quale ruolo abbiano oggi le Fondazioni (…) dal momento che si comportano con le stesse modalità delle banche tradendo gli scopi statutari e la loro mission originaria». E potete scommettere che la polemica tra le parti non finisce qui.