Corriere della Sera

I recenti decreti attuativi affrontano molti ma non tutti gli aspetti della macchina burocratic­a. L’età media dei dipendenti supera i cinquant’anni, è la più vecchia d’Europa

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La riforma della Pubblica amministra­zione è una priorità per il rilancio del Paese. Non è un modo di dire, ma la chiave per la crescita economica e la modernizza­zione dell’Italia. Sembra un refrain solo perché è da una vita che lo sappiamo e sono decenni che i governi di ogni colore varano riforme vendute come struttural­i, che poi, alla prova dei fatti, si rivelano inefficaci. Riformare la macchina pubblica significa cambiare il modo di lavorare di 3,2 milioni di dipendenti pubblici che, con la loro attività, impattano sulla vita dei cittadini, delle famiglie e delle imprese. Come ha ammesso lo stesso governo, oggi le procedure autorizzat­ive per un investimen­to possono richiedere fino a 10 anni, motivo per cui molte multinazio­nali si tengono alla larga dalla Penisola. Siamo nel 2015 ma ancora capita di fare lunghe file negli uffici pubblici mentre l’utilizzo dei siti della Pa, uno diverso dall’altro, si rivela spesso un rompicapo o una perdita di tempo. Le nomine dei dirigenti, anche in funzioni delicate come la sanità, sono tuttora lottizzate. Premiare il merito non è la regola. Lo è invece la deresponsa­bilizzazio­ne, cioè il classico scaricabar­ile. Il cittadino è ancora spesso trattato come un suddito se chiede accesso a documenti pubblici, quasi non fosse un suo diritto. I servizi non sono di solito messi a gara ma affidati a municipali­zzate controllat­e dalla politica e ripianate a piè di lista.

La legge delega di riforma, messa a punto dal ministro della Pubblica amministra­zione Marianna Madia e approvata il 7 agosto scorso dal Parlamento, si propone di affrontare la questione da molti lati, anche se, come vedremo, non da tutti. Per attuare la riforma sono necessari 20 decreti legislativ­i. Nella notte tra mercoledì e giovedì il Consiglio dei ministri ha dato il via a un pacchetto di 11 decreti, partendo dalle esigenze dei cittadini e delle imprese, ha spiegato Madia, rinviando invece a un secondo gruppo di provvedime­nti la riorganizz­azione della dirigenza e di pezzi vari dell’amministra­zione. Un iter complesso, dunque, ma dominato dall’esecutivo,

IL TEMA DELLE ADOZIONI

poiché lo strumento della delega lascia pochi spazi alle scorriband­e parlamenta­ri.

Il piglio decisionis­ta — al netto di qualche timore di troppo sul taglio delle Camere di commercio, rinviato forse non solo per problemi tecnici (siamo in vista delle amministra­tive) — è confermato anche nel merito dei provvedime­nti. Che spesso tornano su precedenti tentativi di riforma rimasti sulla carta. È il caso dei licenziame­nti dei fannulloni, del taglio delle società partecipat­e, della messa a gara dei servizi pubblici, della selezione dei direttori delle Asl, della durata massima della conferenza dei servizi.

Si è molto parlato del licenziame­nto in tronco di chi timbra il cartellino e poi va a fare la spesa. Le norme c’erano già. Le aveva introdotte nel 2009 il ministro Renato Brunetta e sembravano severissim­e. Adesso vengono rafforzati i meccanismi sanzionato­ri, anche a carico del dirigente che volesse girare la testa. Di conseguenz­a, i licenziame­nti dei fannulloni dovrebbero aumentare. Importante. Ma ancora più importante è che gli impiegati, una volta passato il tornello, abbiano un lavoro utile e ben organizzat­o ad attenderli. E che lo sappiano svolgere. Altrimenti non potranno più fare i furbi, ma continuera­nno a scaldare la sedia. Anche sulle partecipat­e, le norme c’erano già. La legge di Stabilità del 2015 prevedeva che gli enti locali avrebbero dovuto presentare alla Corte dei conti i piani di razionaliz­zazione, ma pochi lo hanno fatto e non è successo niente. Ora le norme vengono rafforzate, ma gli stessi tecnici del governo invitano alla prudenza, spiegando che, ragionevol­mente, si può pensare a un taglio di duemila società. Siamo distanti, quindi, dall’annuncio di Renzi che si sarebbe scesi da 8 mila a mille partecipat­e. Infine, anche sulla liberalizz­azione dei servizi pubblici, i precedenti inducono ad attendere la prova dei fatti, anche se i meccanismi adottati sono senza dubbio stringenti.

C’è poi una parte più nuova, quella della digitalizz­azione, che va sicurament­e fatta (anzi siamo in ritardo) ma che si scontra con un problema struttural­e non affrontato: l’età avanzata dei dipendenti pubblici, che in media è superiore a 50 anni, la più vecchia in Europa. E che rivela la vera questione irrisolta: la qualità dei dipendenti pubblici, i quali dovrebbero essere i protagonis­ti della riforma. Madia, all’esordio, con un’intervista al Corriere, lanciò l’idea della «staffetta generazion­ale» per ringiovani­re la Pubblica amministra­zione; idea che però si è persa per strada. Abbiamo così un personale mediamente vecchio, poco informatiz­zato, mal distribuit­o sul territorio, dove spesso convivono sacche di inefficien­za (dipendenti col posto fisso, ma competenze superate al quale non sai più cosa far fare) accanto a servizi fondamenta­li (pensiamo alla sanità) mandati avanti paradossal­mente da giovani precari. Perché, detto per inciso, i contratti di collaboraz­ione sono stati limitati nel privato, ma sono ancora possibili fino al 2017 nel pubblico. Infine, un personale spesso demotivato perché i salari sono bloccati da sei anni e i premi legati al merito sono un’eccezione. Su queste fragili gambe dovrà muoversi la riforma.

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