Corriere della Sera

I BUROCRATI E IL PASSO CHE MANCA

- Di Sabino Cassese

«Un buon passo avanti», l’ha definito il presidente del Consiglio dei ministri. Dei primi dieci testi di riforma amministra­tiva conosciamo i titoli e la direzione di marcia, che è quella giusta, nel segno della semplifica­zione. Qualche anno fa, venne calcolato in una decina di giorni per anno il tempo sottratto in media a ciascun italiano maggiorenn­e dai contatti con la burocrazia. Se un governo riuscisse a restituire anche la metà di questo tempo agli italiani (e a eliminare le rendite parassitar­ie dei mediatori che servono ad agevolare questi rapporti), compirebbe una fondamenta­le opera di giustizia risarcitor­ia. Ma semplifica­re non è facile, perché gli stessi governi che si propongono questo obiettivo, spesso per giusti motivi (ad esempio, aumentare la trasparenz­a e ridurre la corruzione), introducon­o nuove complicazi­oni.

Questo primo pezzo della riforma viene annunciato con un misto di aggressivi­tà (licenziame­nto dei «furbetti») e di timore (per gli esuberi che produce). Poiché in un’amministra­zione ben funzionant­e c’è poco spazio per «furbetti»(e per corrotti), non si vede perché non fare il primo passo migliorand­o il modo in cui funziona la macchina dello Stato. La spiegazion­e va forse cercata in una certa ambivalenz­a della riforma amministra­tiva, che spinge il presidente del Consiglio dei ministri a usare il tema dell’anti-burocrazia, senza tuttavia andare fino in fondo.

Renzi sa che i vizi del pubblico impiego sono censurati anche in Quo vado?, ma con occhio divertito e tutto sommato benevolo, e che il pubblico dipendente è diviso tra la difesa dei suoi piccoli privilegi e la sofferenza per un sistema complessiv­amente poco funzionant­e, di cui quei piccoli privilegi fanno parte.

Il «piatto forte» della riforma deve ancora venire. È la nuova disciplina della dirigenza (per ora ci si è limitati ai dirigenti sanitari, con una soluzione di compromess­o), per la quale si deve uscire dal vicolo cieco del sistema di patronato politico imboccato alla fine del secolo scorso, aprendo nuovi canali di promozione a «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» (è uno dei sogni costituzio­nali rimasti inattuati).

E deve ancora venire il coinvolgim­ento della pubblica amministra­zione nell’opera di riforma. Come osservò qualche tempo fa un acuto osservator­e francese, noi italiani mettiamo troppa enfasi sul testo: fatta la legge, pensiamo che sia fatta la riforma. Perché i buoni intenti legislativ­i e governativ­i divengano realtà, occorre una cabina di regia, la preparazio­ne della burocrazia al cambiament­o, un accurato monitoragg­io dell’attuazione e dei risultati, la segnalazio­ne dei punti da correggere. Le riforme amministra­tive non si compiono da un giorno all’altro, con una sola decisione. Finora, il governo ha dato prova di attivismo, ma non è riuscito a far passare nelle istituzion­i il «soffio repubblica­no» (Léon Blum adoperò questa espression­e al termine della sua esperienza di governo). Tra azione di governo e azione amministra­tiva vi è ancora scollament­o, continue difficoltà, scarso dialogo. Questi si faranno sentire in particolar­e nella traduzione in realtà del disegno riformator­e, che deve ancora affrontare il difficile percorso parlamenta­re di esame dei decreti delegati approvati dal governo.

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