Le due strade del premier dopo il referendum
Se è vero che il destino del governo è legato al risultato del referendum, è altrettanto vero che proprio il referendum decreterà la fine della sua missione. Perciò a ottobre, se sarà riuscito a traghettare l’Italia nella Terza Repubblica, Renzi dovrà decidere cosa fare: interrompere la navigazione o proseguire nella rotta.
Ecco la scelta che compete al premier, su questo ragionano i suoi alleati «interni» ed «esterni», dal capogruppo di Ncd Lupi al leader dei forzisti ammutinati Verdini: tutti proiettati sul prossimo futuro. È come se l’autunno fosse già alle porte, è un tema dirimente che impegna anche la minoranza democrat nelle riunioni riservate, è un argomento che ieri ha attraversato il dibattito alla direzione del Pd. Perché se davvero Renzi — doppiato lo scoglio del referendum — decidesse di spingersi fino alle colonne d’Ercole della legislatura, cambierebbe la natura del suo esecutivo. E l’alleanza con una costola del vecchio centrodestra, nata per varare le riforme, si trasformerebbe in una coalizione politica proiettata verso le elezioni.
Su questa analisi convergono le due estreme della maggioranza che fanno da corona al presidente del Consiglio, sebbene le loro reazioni siano contrapposte. Il cambio di ragione sociale del governo avrebbe infatti conseguenze traumatiche nel Pd e — sotto la spinta levatrice della campagna referendaria — legherebbe l’area postberlusconiana a Renzi. Nulla sarebbe più come prima: né la natura della maggioranza né la composizione del Consiglio dei ministri. E c’è un motivo se il premier non affronta la questione, e fa mostra di non vedere il bivio: deve ancora scegliere. Intanto si porta avanti, punta alla consultazione popolare d’autunno per poi regolare i conti nel partito.
In Italia e in Europa si allunga però la fila di quanti ritengono che in realtà abbia già deciso: dall’ex presidente della Camera Casini, secondo cui si andrà alle urne nella «primavera inoltrata» del 2017, al capogruppo del Ppe Weber (come dire Merkel), convinto che il segretario del Pd abbia alzato il tiro su Bruxelles per portare al voto anticipato Roma: «Solo così si spiega cosa sta facendo». È una tesi che ha fatto breccia sulle colonne del Wall Street Journal, è uno scenario che è stato reso immaginifico sul Foglio, con tanto di «grilletto e pallottola d’argento».
Ma le certezze di chi osserva le mosse di Renzi non trovano riscontro (per ora) negli atti di Renzi. Il fatto è che il premier si rende conto di come un cambio di sistema possa determinare effetti imprevedibili: nel ‘94, per esempio, nessuno nel Pds come nel Ppi immaginava che avrebbe vinto Berlusconi. È un ricordo ricorrente nei ragionamenti del leader democrat, che evocando il fondatore del centrodestra confida di emularlo: «Ci sarà il G7 in Italia», ha detto ieri, e probabilmente si terrà nella sua Firenze.
Ai vertici europei — tra il serio e il faceto — ripete spesso ai capi di stato e di governo che «io scadrò dopo di voi». Vuol dire quindi che pensa davvero di proseguire fino al 2018? La risposta si avrà in Europa, dove il braccio di ferro in atto cela il tentativo del premier di crearsi dei varchi, dei margini di manovra nei conti pubblici. Perché il suo sogno è trasformare la legge di Stabilità del 2017 in un manifesto elettorale per il 2018, dove poter dar corso alla riforma dell’Irpef promessa al Paese e aggiungerci un tocco (manco a dirlo) berlusconiano: così come il leader di Forza Italia — a sorpresa — promise il taglio dell’Ici prima che si aprissero le urne, Renzi vorrebbe annunciare l’abolizione del canone Rai, suo vecchio pallino.
Sono proiezioni molto in là nel tempo, ma è ora che il premier deve creare le condizioni per riuscire nell’impresa. Mentre alleati «interni» ed «esterni» — così come i suoi compagni di partito — attendono di capire cosa vorrà fare al bivio: se andare avanti, mettendo in conto un cambio della maggioranza o fermarsi e contemplare la fine anticipata della legislatura. Ma più delle modifiche costituzionali è la revisione del sistema di tassazione la riforma più attesa tra gli elettori. E Renzi dovrebbe spiegare i motivi dell’addio alla promessa.
Nel 1992, Bush senior perse la Casa bianca per mano di Clinton, dopo una campagna elettorale durante la quale i democratici proposero ossessivamente le immagini di quattro anni prima, in cui il candidato repubblicano giurava che non avrebbe messo le mani nelle loro tasche: «Leggete le mie labbra, nessuna nuova tassa». Nel centrodestra hanno già pronti gli spot con l’annuncio di Renzi all’Assemblea del Pd nel luglio dello scorso anno: «... E nel 2018 cambieremo l’Irpef». Le scorciatoie possono rivelarsi pericolose nei cambi di sistema.
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