Corriere della Sera

LA VITA CON PAPÀ: ERA UN FASCISTA

Anteprima Pierluigi Battista si riconcilia con la figura del padre Vittorio e riannoda i fili di una vicenda familiare dolorosa, fatta di scontri e incomprens­ioni, di amore e rimpianti Il libro in uscita martedì 26 per Mondadori

- Di Aldo Cazzullo

Pierluigi Battista sta per pubblicare un libro sincero e duro con suo padre e più ancora con se stesso, con un avvio che è un pugno nello stomaco: Mio padre era fascista.

«Mio padre erano due. C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalitti­co. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimen­to e rabbia. C’era il conservato­re e c’era il ribelle. C’era il profession­ista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradiziona­le, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimament­e devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciat­o da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonav­a mai. C’era l’italiano solare, socievole, spiritoso, con un senso dell’umorismo che mi piace ricordare ancora arguto e sottile. E c’era un uomo, mio padre, divorato dal suo lato notturno, esacerbato, cupo, talvolta lugubre».

La sofferenza del padre era inasprita dal figlio, che non soltanto aveva scelto la parte opposta, ma rifiutava di ascoltare le sue ragioni, e lo incalzava come se fosse responsabi­le di tutte le malefatte nell’Italia occupata («sei impazzito, forse? Mi stai accusando pure di aver partecipat­o alla strage di Sant’Anna di Stazzema?»). Il figlio, Pierluigi Battista, sta per pubblicare ora da Mondadori un libro sincero e duro con il genitore e più ancora con se stesso: Mio padre era fascista.

La splendida copertina con il Colosseo quadrato dell’Eur evoca i percorsi nella Roma mussolinia­na, scanditi dal «guarda!» con cui Vittorio Battista indicava a un ragazzino perplesso i monumenti costruiti e le strade aperte dal Duce, sempre rigorosame­nte nell’onomastica originale: via dell’Impero, Foro Mussolini; nelle gite fuori porta non si andava a Latina ma a Lit- toria, a Sabaudia non si ammiravano le dune ma la piazza, a Firenze prima degli Uffizi si visitava la stazione di Piacentini... Ma subito il libro si apre con un pugno nello stomaco: le pagine del diario, scritto nei giorni terribili seguiti alla guerra civile, e ritrovato solo dopo la morte del padre. Scene da girone dantesco: i prigionier­i di Salò in catene che sfilano tra due ali di folla che li insulta, li minaccia, rifiuta loro un sorso d’acqua, sputa, tira sassi. E poi la prigionia a Coltano, il compagno falciato dai mitra dei vincitori solo per essersi avvicinato ai reticolati, Ezra Pound nella «gabbia del gorilla». Giorni in cui si accumula un risentimen­to destinato ad avvelenare la vita dell’«esule in patria», il cui tormento è acuito dall’incapacità di farsi ascoltare da un figlio che ama e da cui, nel profondo, è riamato. Un conflitto che esplode con la morte atroce dei fratelli Mattei, quando Pierluigi torna a casa rauco dal corteo in cui ha urlato «Lollo libero» e Vittorio — «sei proprio un cretino!» — gli mostra le carte del processo, da cui si deduce con chiarezza che Lollo e gli altri «compagni» sono responsabi­li del rogo di Primavalle; e «i padri della patria» antifascis­ta «non erano turbati da nessuna scossa, da nessun soprassalt­o emotivo, da nessun senso di sconfinata ingiustizi­a per la morte atroce di un bambino bruciato vivo, solo perché era figlio di un fascista. Un figlio di fascista anche lui, come me».

Ma il tono medio del libro non è affatto triste. E non solo per la ricostruzi­one della giovinezza dell’autore, da cui scopriamo un Battista «antifascis­ta militante» negli scontri di scuola

Il passato riscoperto Il testo si apre con un pugno nello stomaco: le pagine ritrovate del diario scritto dal «ragazzo di Salò» nei giorni seguiti alla guerra civile

e di strada; anche se quando finisce nelle mani di «Roccia», temuto picchiator­e, «una montagna di muscoli», si salva solo in quanto figlio dell’avvocato che difende gratuitame­nte i camerati («vedi de ringrazzià tu’ padre»). Un padre capace di autoironia, che al volante si sorprende a cantare «le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera» o a fare il verso a una celebre scena del film Il federale — «buca», «buca con acqua»... —, che si commuove davanti al Giardino dei Finzi Contini, che rifiuta di fermarsi all’autogrill di Cantagallo perché non hanno servito il suo amico Almirante, che difende gratuitame­nte pure gli estremisti dell’altra parte chiedendo consulenze linguistic­he al figlio — «ma Pigi che diavolo vuol dire “tirare le bocce”?»; «le bocce sono le bottiglie molotov, papà» —, che si diverte a elencare artisti e attori che militarono nella Repubblica sociale (mentre Battista parla di altri scrittori che fecero anche loro i conti con il padre fascista, da Giampiero Mughini a Vincenzo Cerami a Margaret Mazzantini). E alla fine anche chi non ha alcuna accondisce­ndenza per il fascismo nelle sue varie forme — il regime, Salò, la nostalgia — finisce per provare simpatia per questo padre pieno di humour e di amore frustrato per l’Italia e per i propri figli.

Chi ha la fortuna di conoscere, di persona o attraverso i suoi articoli sul «Corriere», lo spessore culturale e umano di Pierluigi Battista ne ritroverà le radici nella figura del genitore e nell’ambiente familiare, dove si affacciano i fratelli e la madre, innamorati­ssima del suo uomo fin da quando partì ventenne verso il fronte per restargli accanto a rischio della vita, e dove compaiono anche Silvia, la moglie scomparsa dell’autore, e la loro figlia Marta. Questo però non attenua l’angoscia, anzi rende il lettore ancora più partecipe delle strazianti pagine finali.

Vittorio Battista si spegne a 68 anni, poco dopo la morte di Almirante: il suo ultimo riferiment­o politico, l’uomo che aveva scritto le parole dell’inno del Msi — «siamo nati in un cupo tramonto» — in cui si riconoscev­a. La sera del funerale, Vittorio diserta la cena dei dirigenti. Chiede al figlio di mangiare una pizza con lui, in silenzio, e ha appena un gesto di disappunto quando Pierluigi fa cadere la brocca dell’acqua. Il padre fascista si spegne serenament­e, la famiglia gli si stringe attorno, la barriera ideologica ormai è caduta, ma il figlio ancora non riesce a cavarsi da dentro il dolore.

Il nodo si scioglie cinque anni dopo. Battista segue per «La Stampa» il congresso di Fiuggi, in cui l’Msi abbandona «la casa del padre» per avviarsi a una stagione effimera ma ricca di potere e di ritrovata rispettabi­lità. La giornata scorre via tra gli appunti, la stesura dell’articolo, la cauta apertura al nuovo corso da parte del «giornale di Bobbio e Galante Garrone», la cena con i colleghi, le celie su «er Pinguino» o «er Pecora», il riposo in albergo. «Non sapevo cosa mi aspettasse oltrepassa­ndo quella porta: il luogo imprevisto dove stava per cominciare la notte dello strazio e della disperazio­ne, la notte in cui la calma delle ore precedenti andò in fumo e mi misi mio malgrado a battagliar­e senza tregua con il fantasma di mio padre fascista».

Febbre altissima, brividi sotto il piumone, vomito, panico. «Un pianto interminab­ile, ore e ore senza pace, sgomento, esterrefat­to per quel precipitar­e in un gorgo per me ignoto». E il desiderio di sentire la voce della madre, «per dirle tra i singhiozzi irrefrenab­ili quanto mi sentissi solo come mai nella mia vita». L’annichilim­ento del mondo del padre, la fine dei «decenni della marginalit­à voluta come simbolo di fedeltà a se stesso», l’angoscia per «quella desolata cerimonia di addio alle armi» si sommava al senso di colpa che finalmente trovava sfogo, al rimpianto per non aver siglato in vita quella riconcilia­zione che il re Lear shakespear­iano offre alla figlia Cordelia: «Andiamo via. In prigione, noi due, là, soli, e canteremo come uccelli in gabbia. Quando tu a me chiederai la mia benedizion­e, e io a te, in ginocchio, chiederò il tuo perdono». Ora la riconcilia­zione tra il figlio ribelle e il padre fascista è finalmente arrivata. Ed è questo libro.

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Antonio Marasco (1896-1975), Adunata in Piazza Venezia (1932, olio su tavola, collezione privata)

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