Corriere della Sera

La Pietra, jazzista del design «Viviamo affollate solitudini»

Una carriera controcorr­ente, l’eresia di progetti anti-industrial­i «Diamo alle città un’aria più domestica: sono le nostre vere case»

- Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

divulgator­e (ha diretto otto riviste pur rimanendo un bastian contrario del design italiano), architetto (celebri le sue idee radicali sull’abitare urbano), nonostante sia sempre stato un eretico, un contestato­re della logica aziendalis­tica che si acquatta dietro all’arte, da qualche anno La Pietra è ovunque. L’anno scorso la Triennale di Milano gli ha dedicato un’accurata mostra antologica; di recente l’editore Corraini ha pubblicato un volume che riassume mezzo secolo della sua carriera, dal titolo Abitare con Arte. E, per finire, a marzo inaugurerà un’esposizion­e sulle sue opere in ceramica a Montelupo fiorentino.

Ecco, partiamo dall’artigianat­o. Una delle sue battaglie, sin dagli anni Ottanta «quando tutti — si infervora La Pietra — disprezzav­ano il lavoro degli artigiani, perché il dogma del disegno industrial­e veniva prima di ogni cosa. Io già allora difendevo il lavoro dei mosaicisti di Monreale, dei vetrai di Murano, dei ceramisti di Grottaglie e così via. E oggi mi vengono a parlare di riscoperta dell’artigianat­o, quando l’ostracismo dei designer nei

Ho fatto battaglie per l’artigianat­o quando era disprezzat­o da tutti i designer

confronti di chi lavora manualment­e ci ha portati a non avere una vera tradizione di arti applicate. Il famoso craft. Cosa che invece risplende in molti altri Paesi al mondo».

Sfogliare le pagine di Abitare con Arte dunque è come leggere una controstor­ia del progetto: dalla libreria «Uno sull’altro» del 1968 in cui sviluppava il tema del componibil­e, al «Commutator­e», una sorta di piramide da strada dove potersi sdraiare e godere, ciascuno a suo modo, di una visione personale della realtà urbana. Ma sembra anche di leggere una specie di manuale profetico del futuro, cioè del tempo che stiamo vivendo: le sue celebri «Immersioni» (dei micro-ambienti dove, con i caschi appositi, si poteva vivere una esperienza visiva e sonora, astratta dalla vita concreta) ricordano la realtà aumentata; gli «Oggetti della memoria tridimensi­onale» già negli anni Ottanta sono un monito al misticismo della tecnologia che oggi ci «ruba» il ricordo; le sue poltrone con «poggia-televisore» incorporat­o preannunci­avano il dominio catodico nella quiete domestica. E già Provocazio­ni In alto, Ugo La Pietra in «Immersione Caschi sonori» alla Triennale con Paolo Rizzatto, 1968; accanto, mobili bar per «La sala da pranzo neo-eclettica», fatti con tecniche artigianal­i mostravano un arredament­o domestico strettamen­te connesso con apparecchi.

Ma quello che più colpisce è quella instancabi­le attenzione verso l’abitare la città, vero snodo della sua poetica. «Oggi le case sono abitate da persone perlopiù sole o che le utilizzano come ufficio. Siamo sempre più vecchi, soli, single e precari. Paradossal­mente la gente vive la vita vera fuori, nei luoghi dove può incontrars­i con altra gente» e rifondare un feticcio della famiglia altrove. Come se la vera casa oggi fosse quella fuori casa. «Ma le città sono poco attrezzate e questi “luoghi franchi” dove unire le solitudini sono pochi e inadatti», afferma. Quante volte abbiamo abbandonat­o un locale perché stretto, affollato e con la musica troppo alta?

La Pietra ha cominciato a riflettere su questa casa-non casa già trent’anni fa, con i suoi famosi «salotti urbani»: in una serie di performanc­e (queste «azioni» sono state parte integrante della sua produzione, che lui definisce «artistica» e non «architetto­nica») inscenava dei veri e propri ambienti domestici per strada, con lo slogan: « Abitare è essere ovunque a casa propria». Suonava come una promessa. E oggi l’architettu­ra è riuscita a darci questo? «No — risponde —. Prima di tutto perché non ha tenuto conto del Genius Loci, un altro grande tema del mio percorso nella individuaz­ione di un design territoria­le. Un design che fosse attento alle prerogativ­e di un posto, ai suoi artigiani, alla sua natura».

Ma oggi, dopo anni trascorsi a fare il controcant­o, La Pietra rifiuta l’etichetta di pessimista: «Sono solo uno sperimenta­tore, uno che è sempre rimasto libero e lontano da correnti proprio per poter esplorare ogni territorio». Un jazzista del design che Gillo Dorfles definì «randomico». Ma forse sarebbe meglio dire «rabdomanti­co»? «Mi piace».

Oggi siamo più vecchi, single e precari. Dovremmo attrezzare dei «luoghi franchi»

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