La Pietra, jazzista del design «Viviamo affollate solitudini»
Una carriera controcorrente, l’eresia di progetti anti-industriali «Diamo alle città un’aria più domestica: sono le nostre vere case»
divulgatore (ha diretto otto riviste pur rimanendo un bastian contrario del design italiano), architetto (celebri le sue idee radicali sull’abitare urbano), nonostante sia sempre stato un eretico, un contestatore della logica aziendalistica che si acquatta dietro all’arte, da qualche anno La Pietra è ovunque. L’anno scorso la Triennale di Milano gli ha dedicato un’accurata mostra antologica; di recente l’editore Corraini ha pubblicato un volume che riassume mezzo secolo della sua carriera, dal titolo Abitare con Arte. E, per finire, a marzo inaugurerà un’esposizione sulle sue opere in ceramica a Montelupo fiorentino.
Ecco, partiamo dall’artigianato. Una delle sue battaglie, sin dagli anni Ottanta «quando tutti — si infervora La Pietra — disprezzavano il lavoro degli artigiani, perché il dogma del disegno industriale veniva prima di ogni cosa. Io già allora difendevo il lavoro dei mosaicisti di Monreale, dei vetrai di Murano, dei ceramisti di Grottaglie e così via. E oggi mi vengono a parlare di riscoperta dell’artigianato, quando l’ostracismo dei designer nei
Ho fatto battaglie per l’artigianato quando era disprezzato da tutti i designer
confronti di chi lavora manualmente ci ha portati a non avere una vera tradizione di arti applicate. Il famoso craft. Cosa che invece risplende in molti altri Paesi al mondo».
Sfogliare le pagine di Abitare con Arte dunque è come leggere una controstoria del progetto: dalla libreria «Uno sull’altro» del 1968 in cui sviluppava il tema del componibile, al «Commutatore», una sorta di piramide da strada dove potersi sdraiare e godere, ciascuno a suo modo, di una visione personale della realtà urbana. Ma sembra anche di leggere una specie di manuale profetico del futuro, cioè del tempo che stiamo vivendo: le sue celebri «Immersioni» (dei micro-ambienti dove, con i caschi appositi, si poteva vivere una esperienza visiva e sonora, astratta dalla vita concreta) ricordano la realtà aumentata; gli «Oggetti della memoria tridimensionale» già negli anni Ottanta sono un monito al misticismo della tecnologia che oggi ci «ruba» il ricordo; le sue poltrone con «poggia-televisore» incorporato preannunciavano il dominio catodico nella quiete domestica. E già Provocazioni In alto, Ugo La Pietra in «Immersione Caschi sonori» alla Triennale con Paolo Rizzatto, 1968; accanto, mobili bar per «La sala da pranzo neo-eclettica», fatti con tecniche artigianali mostravano un arredamento domestico strettamente connesso con apparecchi.
Ma quello che più colpisce è quella instancabile attenzione verso l’abitare la città, vero snodo della sua poetica. «Oggi le case sono abitate da persone perlopiù sole o che le utilizzano come ufficio. Siamo sempre più vecchi, soli, single e precari. Paradossalmente la gente vive la vita vera fuori, nei luoghi dove può incontrarsi con altra gente» e rifondare un feticcio della famiglia altrove. Come se la vera casa oggi fosse quella fuori casa. «Ma le città sono poco attrezzate e questi “luoghi franchi” dove unire le solitudini sono pochi e inadatti», afferma. Quante volte abbiamo abbandonato un locale perché stretto, affollato e con la musica troppo alta?
La Pietra ha cominciato a riflettere su questa casa-non casa già trent’anni fa, con i suoi famosi «salotti urbani»: in una serie di performance (queste «azioni» sono state parte integrante della sua produzione, che lui definisce «artistica» e non «architettonica») inscenava dei veri e propri ambienti domestici per strada, con lo slogan: « Abitare è essere ovunque a casa propria». Suonava come una promessa. E oggi l’architettura è riuscita a darci questo? «No — risponde —. Prima di tutto perché non ha tenuto conto del Genius Loci, un altro grande tema del mio percorso nella individuazione di un design territoriale. Un design che fosse attento alle prerogative di un posto, ai suoi artigiani, alla sua natura».
Ma oggi, dopo anni trascorsi a fare il controcanto, La Pietra rifiuta l’etichetta di pessimista: «Sono solo uno sperimentatore, uno che è sempre rimasto libero e lontano da correnti proprio per poter esplorare ogni territorio». Un jazzista del design che Gillo Dorfles definì «randomico». Ma forse sarebbe meglio dire «rabdomantico»? «Mi piace».
Oggi siamo più vecchi, single e precari. Dovremmo attrezzare dei «luoghi franchi»