Le lacrime per David e la polizia del dolore
iao, David. Colonna sonora della mia vita». Come già Robin Williams due anni fa, la morte di Bowie riscopre il lutto collettivo. Milioni di fan che si riversano sui social per testimoniare quanto il ragazzo di Brixton ne abbia segnato l’esistenza. Un lutto vero, caotico e composto. Che non a tutti piace. E’ la polizia del dolore, come la chiama l’Atlantic. Legifera sul lutto, dicendoti come, quando e dove, convinta che esista un solo modo di piangere la morte: in silenzio, in privato, stoicamente. Affollano l’Internet, e con toni da troll gridano a chi soffre che lo sta facendo troppo, o non abbastanza. Come Camilla Long del Sunday Times. «I frignanti di Bowie», li additava. «Bugiardi, autoindulgenti. Mi fate vomitare». Polizia del dolore, che aspetta al varco del controllo qualità i sentimenti altrui, pronta a certificare col pennino blu che non l’hanno passato. Che c’era già quando morì Lady Diana: bollava quelle della gente lacrime di coccodrillo, ingiungendogli di piangere, casomai, Madre Teresa. Lo stesso benaltrismo del twittero che «Bowie aveva 69 anni: in Siria sono morti 12 bambini che insieme 69 non li fanno». Ma chi decide quello che sentiamo? Le icone culturali scavano nelle loro anime per dare al mondo un po’ di sé, in cui ci riconosciamo. La loro morte è universale. Soprattutto, se Internet è il nostro diario, accanto agli sberleffi dev’esserci il dolore. Gli ipocriti non sono mai mancati: condividere una perdita sui social è il modo in cui oggi l’affrontiamo. E’ partecipazione, veglia, è il telegramma d’una volta - non c’era forse retorica allora? Altro che coccodrilli. # RIPDavidBowie è un hashtag, ma anche un funerale. E non a caso, quando poi leggono i post, i familiari ringraziano commossi.
CostanzaRdO