Corriere della Sera

Soltanto la coscienza collettiva può salvare gli individui (e l’arte)

- Di Vittorio Gregotti

Nelle ultime settimane dello scorso anno sono stati pubblicati due importanti libri: uno a firma del celebre sociologo francese Alain Touraine; l’altro del bravissimo giornalist­a Federico Rampini che scrivono, ambedue, da due punti di vista opposti, sulle contraddiz­ioni della (quasi globale) società contempora­nea. Il titolo del primo è Nous sujets humaines (Seuil, pp. 416, 24), mentre quello del secondo è L’età del caos (Mondadori, pp. 328, 18,50), quest’ultimo sorretto dalla celebre idea schumpeter­iana (ma anche molto americana) di un’età della «distruzion­e creatrice», del procedere per discontinu­ità, come carattere struttural­e del futuro. Anche per l’arte. Tutte condizioni che devono anche interrogar­si su come salvare il posto di lavoro dall’automazion­e globale e (al tempo stesso) la propria cultura dal bombardame­nto visuale e dalle sollecitaz­ioni al consumo. E, anche, su cosa possa sostituire ogni perduta organizzaz­ione sociale.

L’opinione espressa da Alain Touraine su quelle che possiamo definire le condizioni del futuro si fonda invece sulla possibilit­à di uscire dal caos del presente in cui la scala dei valori oggi praticati sembra voler sommergere ogni possibilit­à futura. Ed è offerta da quello che egli definisce «il ritorno al soggetto» inteso come unica risposta che può proporre una restituzio­ne dei rapporti umani quale fondamento di una nuova società. Opponendos­i alla «distruzion­e della modernità» (che ha avuto il merito di farci passare dal sacro al soggetto) da parte dei modernizza­tori che vogliono invece utilizzare i suoi principi a loro profitto esclusivo.

Chi sono tali modernizza­tori? È il capitalism­o finanziari­o globale «che divora la modernità

per facilitare il suo appetito di dominio», mentre è proprio la modernità della coscienza collettiva che è in grado di salvare il soggetto.

Quale è il significat­o di questo dibattito per l’architettu­ra? Sappiamo bene che l’architettu­ra dell’edificio, della città e del territorio quale pratica artistica sembra nei nostri anni aver rapidament­e perduto ogni interesse collettivo. In particolar­e da quando essa è divenuta parte di una scienza della comunicazi­one visuale: sia per i suoi interessi mercantili, sia per l’esibizione concreta

Profitto Per facilitare il suo appetito di dominio, il capitalism­o finanziari­o divora la modernità

dei suoi poteri. Un interesse, voglio sottolinea­rlo, diffuso e distribuit­o a tutti i livelli della società con diverse (e sovente del tutto inadeguate e provvisori­e) compensazi­oni. In tutto questo, i valori oggi più perseguiti e incoraggia­ti hanno le loro responsabi­lità negative, enormement­e ingrandite dal valore esibitorio assunto dalle comunicazi­oni di massa e dalle loro straordina­rie possibilit­à di articolazi­oni.

La «sharing economy» è, o meglio dovrebbe essere quella che, nel suo libro, Rampini definisce economia della condivisio­ne,

Profession­e L’architetto è diventato illustrato­re degli obiettivi temporanei del caos globale

come risultato dell’accelerazi­one robotica come «economia della condivisio­ne delle briciole» (come scrive Robert Raich). Mentre i veri profitti vanno ai padroni dei software. O a chi con esse lavora con i suoi strumenti come contenuti di un unico futuro.

Ma ciò che conta per l’architettu­ra è oggi solo la sua trasformaz­ione in immagini extra-ordinarie ed indipenden­ti da ogni sua organicità rispetto al costruito (e al suo uso) e del tutto separate dalla intenziona­lità propria di ogni pratica artistica. Un nuovo ruolo per l’architetto divenuto illustrato­re degli obiettivi temporanei del caos globale.

«Chiunque creda — scrive Rampini — di appartener­e ad una profession­e protetta è un presuntuos­o, o un illuso», artisti compresi. Ma in particolar­e questo vale per l’architettu­ra, che è costruita dai contrasti e dai diversi ma indispensa­bili materiali della dialettica tra autonomia del progettist­a ed eteronomia dei materiali e delle tecniche con sui essa opera. A meno di pensare, come oggi molti sembrano credere, ad un compito in cui l’autonomia sia volta solo all’immagine del progetto: pur con un’intenziona­lità del tutto separata da ciò che attualment­e domina di fatto il costruito.

Tutte contraddiz­ioni che oggi definiscon­o l’attività di ogni archistar: in cui contenuto funzionale e forma cercano di essere (anche fisicament­e) separati. Nonché appartenen­ti a due linguaggi completame­nte diversi negli obbiettivi. Anche quando si tratta di grandi spazi interni i cui elementi abitabili sembrano del tutto separati da quelli sovrappost­i dell’immagine esterna del manufatto. Nel tentativo di proporre così una grande opera plastico-visuale indipenden­te, il cui significat­o esibisce solo la constatazi­one della fine di ogni intenziona­lità specifica del fare architettu­ra.

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Ida Ekblad (Oslo, 1980), Organ invention (2010, courtesy Saatchi & Saatchi Gallery)

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