SE IL LEADER ROMPE GLI EQUILIBRI
RENZI
Curiosamente non ha suscitato molta attenzione il dissidio che nei giorni scorsi ha opposto il presidente del Consiglio da un lato e, pressoché contemporaneamente, la Banca d’Italia e il ministero degli Esteri dall’altro. La prima colpevole, agli occhi di Renzi, di non avergli saputo fornire in tempo le analisi e i consigli in grado di evitare la crisi bancaria che ha fatto scendere in piazza migliaia di risparmiatori; il secondo costretto a digerire la sostituzione del nostro rappresentante presso la Ue — finora un ambasciatore di carriera giudicato però troppo morbido nei confronti di Bruxelles — con un ambasciatore politico quale l’ex viceministro Calenda.
Eppure pochi episodi fanno capire altrettanto bene quanto l’Italia è cambiata. Banca d’Italia e ministero degli Esteri non sono istituzioni qualunque. Ognuna a suo modo ha rappresentato una quintessenza della statualità italiana e della sua vicenda storica. Non solo per la loro funzione, ma perché in entrambi i casi questa funzione si è per così dire incarnata in una specifica ideologia e in un altrettanto specifico «spirito di corpo». Fatti di una tradizione e di una cultura, di norme stilistiche e di principi di azione loro propri. Per le istituzioni italiane un caso rarissimo.
Nella prima Repubblica Banca centrale e Diplomazia sono state chiamate a gestire un’idea d’Italia che era, com’è ovvio, l’idea delle culture politiche dominanti, ma che con qualche aggiustamento si combinava senza troppi problemi con quella delle loro rispettive tradizioni.
L’Esteri e Banca centrale hanno dunque rappresentato e gestito ognuna per la sua parte questa Italia, e lo hanno fatto, hanno potuto farlo, con un forte ruolo in prima persona, con la responsabilità di attori diretti. Negli anni 90, con la fine contemporanea della «guerra fredda» e della prima Repubblica, tutto però ha cominciato a erodersi. Ha cominciato a prendere forma un’altra Italia, quella in cui viviamo. Un Paese che inediti scenari internazionali costringono a punti di riferimento sempre più mobili e incerti anche se al medesimo tempo, e contraddittoriamente, lo stesso si trova sempre più ingabbiato dalle regole europee. Un Paese dagli equilibri politici mutevoli, governato da una classe politica slegata da ogni passato che perlopiù ignora; attraversato da pulsioni di rabbia, da improvvisi movimenti d’opinione, da oscure voglie di rovesciamenti di fronte.
Per più di un verso l’Italia attuale appare insomma costretta a navigare a vista, alle prese con una difficile ridefinizione degli interessi nazionali, nel mentre si è incrinato quello stesso rassicurante perimetro della sovranità nazionale entro il quale proprio la Banca d’Italia e la nostra Diplomazia hanno tradizionalmente sviluppato la propria identità e del quale sono state addirittura tra i massimi presidi. Oggi l’una e l’altra si trovano prive della possibilità d’interloquire con vere culture politiche di riferimento (tutte ormai ridotte a informi gelatine di idee sparse), con veri partiti. Viceversa la crescente, impetuosa personalizzazione del sistema politico non solo italiano le pone sempre più direttamente a contatto con la solitaria figura del leader, del capo del governo (i ministri essendo ormai figure minori: nel caso degli Esteri quasi un comprimario). Il leader: con le sue mutevoli esigenze, la necessità di mantenersi sulla cresta dell’onda e magari in sintonia con i sondaggi, la sua voglia di accentrare nelle proprie mani le decisioni, con il suo naturale desiderio di successi visibili e immediati. Specialmente se questo leader si chiama Matteo Renzi.
Si capisce come l’insieme delle condizioni fin qui dette possa essere adoperato non solo al fine di porre per così dire « fuori fase » la Banca centrale o il ministero degli Esteri, non solo per restringere, come di fatto in certa misura sembra avere già ristretto, i margini di autonomia dell’una e dell’altro, ma anche per intaccare il senso e soprattutto la certezza della loro missione istituzionale. E si capisce allora il significato del dissidio che ha opposto entrambi al presidente del Consiglio.
Un dissidio che non manca di avere anche un evidente risvolto stilistico: da un lato la contegnosa sobrietà rivestita di grisaglia di Palazzo Koch, da un lato l’inglese fluente e una certa esterofilia blasé della Farnesina, dall’altro, invece, gli abiti troppo stretti, la voglia un po’ provinciale di far bella figura e il fare spiccio e risoluto di Renzi. Un dissidio che alla fine sembra l’indizio di un vero e proprio cambio di fase storica nella geografia del potere italiano e dei suoi rapporti interni. E che forse annuncia qualcosa ancora di più: l’avvento di una «gente nova» e del suo comando al posto delle élite di un tempo e delle loro istituzioni.