Corriere della Sera

SE IL LEADER ROMPE GLI EQUILIBRI

RENZI

- Di Ernesto Galli della Loggia

Curiosamen­te non ha suscitato molta attenzione il dissidio che nei giorni scorsi ha opposto il presidente del Consiglio da un lato e, pressoché contempora­neamente, la Banca d’Italia e il ministero degli Esteri dall’altro. La prima colpevole, agli occhi di Renzi, di non avergli saputo fornire in tempo le analisi e i consigli in grado di evitare la crisi bancaria che ha fatto scendere in piazza migliaia di risparmiat­ori; il secondo costretto a digerire la sostituzio­ne del nostro rappresent­ante presso la Ue — finora un ambasciato­re di carriera giudicato però troppo morbido nei confronti di Bruxelles — con un ambasciato­re politico quale l’ex viceminist­ro Calenda.

Eppure pochi episodi fanno capire altrettant­o bene quanto l’Italia è cambiata. Banca d’Italia e ministero degli Esteri non sono istituzion­i qualunque. Ognuna a suo modo ha rappresent­ato una quintessen­za della statualità italiana e della sua vicenda storica. Non solo per la loro funzione, ma perché in entrambi i casi questa funzione si è per così dire incarnata in una specifica ideologia e in un altrettant­o specifico «spirito di corpo». Fatti di una tradizione e di una cultura, di norme stilistich­e e di principi di azione loro propri. Per le istituzion­i italiane un caso rarissimo.

Nella prima Repubblica Banca centrale e Diplomazia sono state chiamate a gestire un’idea d’Italia che era, com’è ovvio, l’idea delle culture politiche dominanti, ma che con qualche aggiustame­nto si combinava senza troppi problemi con quella delle loro rispettive tradizioni.

L’Esteri e Banca centrale hanno dunque rappresent­ato e gestito ognuna per la sua parte questa Italia, e lo hanno fatto, hanno potuto farlo, con un forte ruolo in prima persona, con la responsabi­lità di attori diretti. Negli anni 90, con la fine contempora­nea della «guerra fredda» e della prima Repubblica, tutto però ha cominciato a erodersi. Ha cominciato a prendere forma un’altra Italia, quella in cui viviamo. Un Paese che inediti scenari internazio­nali costringon­o a punti di riferiment­o sempre più mobili e incerti anche se al medesimo tempo, e contraddit­toriamente, lo stesso si trova sempre più ingabbiato dalle regole europee. Un Paese dagli equilibri politici mutevoli, governato da una classe politica slegata da ogni passato che perlopiù ignora; attraversa­to da pulsioni di rabbia, da improvvisi movimenti d’opinione, da oscure voglie di rovesciame­nti di fronte.

Per più di un verso l’Italia attuale appare insomma costretta a navigare a vista, alle prese con una difficile ridefinizi­one degli interessi nazionali, nel mentre si è incrinato quello stesso rassicuran­te perimetro della sovranità nazionale entro il quale proprio la Banca d’Italia e la nostra Diplomazia hanno tradiziona­lmente sviluppato la propria identità e del quale sono state addirittur­a tra i massimi presidi. Oggi l’una e l’altra si trovano prive della possibilit­à d’interloqui­re con vere culture politiche di riferiment­o (tutte ormai ridotte a informi gelatine di idee sparse), con veri partiti. Viceversa la crescente, impetuosa personaliz­zazione del sistema politico non solo italiano le pone sempre più direttamen­te a contatto con la solitaria figura del leader, del capo del governo (i ministri essendo ormai figure minori: nel caso degli Esteri quasi un comprimari­o). Il leader: con le sue mutevoli esigenze, la necessità di mantenersi sulla cresta dell’onda e magari in sintonia con i sondaggi, la sua voglia di accentrare nelle proprie mani le decisioni, con il suo naturale desiderio di successi visibili e immediati. Specialmen­te se questo leader si chiama Matteo Renzi.

Si capisce come l’insieme delle condizioni fin qui dette possa essere adoperato non solo al fine di porre per così dire « fuori fase » la Banca centrale o il ministero degli Esteri, non solo per restringer­e, come di fatto in certa misura sembra avere già ristretto, i margini di autonomia dell’una e dell’altro, ma anche per intaccare il senso e soprattutt­o la certezza della loro missione istituzion­ale. E si capisce allora il significat­o del dissidio che ha opposto entrambi al presidente del Consiglio.

Un dissidio che non manca di avere anche un evidente risvolto stilistico: da un lato la contegnosa sobrietà rivestita di grisaglia di Palazzo Koch, da un lato l’inglese fluente e una certa esterofili­a blasé della Farnesina, dall’altro, invece, gli abiti troppo stretti, la voglia un po’ provincial­e di far bella figura e il fare spiccio e risoluto di Renzi. Un dissidio che alla fine sembra l’indizio di un vero e proprio cambio di fase storica nella geografia del potere italiano e dei suoi rapporti interni. E che forse annuncia qualcosa ancora di più: l’avvento di una «gente nova» e del suo comando al posto delle élite di un tempo e delle loro istituzion­i.

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