Crollo del greggio, reddito in picchiata La crisi economica frena il putinismo
Gesti distensivi Mosca ha moltiplicato i gesti distensivi verso i Paesi Ue sperando nella fine delle sanzioni Le riforme Servirebbero riforme strutturali dell’economia che Putin non può fare
Vanno a cozzare con la scienza triste dell’economia, le ambizioni geopolitiche di Vladimir Putin. Con una crescita negativa pari a quasi il 4% nel 2015, la Russia registra la più severa riduzione del suo reddito nazionale degli ultimi sei anni.
Ancora più grave, la continua discesa dei corsi del greggio, ormai stabilmente intorno alla soglia abissale di 30 dollari al barile, pone un cappio asfissiante al collo del Paese che il combinato disposto del crollo del rublo e delle sanzioni economiche occidentali per l’Ucraina avvicina pericolosamente a una depressione cronica.
Ma oltre i crudi dati congiunturali è l’impianto strutturale del modello di crescita putiniano, lanciato con successo all’inizio del Terzo Millennio che accusa segnali allarmanti di esaurimento. Allora furono i prezzi alle stelle di gas e petrolio a consentire di finanziare un deficit spending, che stimolò i consumi e consolidò la base sociale del nuovo potere di Putin. Ma nessuna riforma vera di modernizzazione dell’economia, che avrebbe implicato anche una liberalizzazione della società, una vera lotta alla corruzione e la fine dei privilegi degli oligarchi che sostengono lo Zar, venne avviata per rendere sostenibile nel tempo un certo livello di crescita.
A conferma che la situazione suscita preoccupazioni al Cremlino sono i ripetuti annunci dello stesso Putin, che ieri ha ricordato al governo come «il mantenimento di un livello di vita decente per la popolazione» sia oggi la priorità assoluta. Allo stesso, in parziale contraddizione, il presidente russo ha suggerito prudenza nell’uso delle riserve valutarie d’emergenza per tamponare la crisi, cui il premier Dmitri Medvedev sta già copiosamente attingendo. Lo stesso primo ministro ha annunciato a breve un nuovo piano di risanamento dell’economia.
Il leader del Cremlino spera che entro i prossimi sei mesi, la fine delle sanzioni occidentali, o almeno di una parte di esse, porti una boccata d’ossigeno all’economia russa. Per questo ha moltiplicato i gesti distensivi verso i Paesi europei, cercando di dimostrare che Mosca sta facendo tutto quanto in suo potere per quanto riguarda l’applicazione degli accordi di Minsk sull’Ucraina.
Di più, è di questi giorni la notizia che a dicembre Putin ha fatto un serio tentativo per convincere il leader siriano Assad a farsi da parte, per facilitare la soluzione della crisi in Siria. Non ha avuto molto successo, ma il gesto è stato apprezzato nelle cancellerie occidentali.
Anche se le sanzioni venissero rimosse, servirebbero però solo a guadagnare tempo, non a risolvere i problemi strutturali dell’economia russa. Anche perché, specie con il ritorno dell’Iran sul mercato petrolifero e l’aumento dell’offerta di greggio, i prezzi dell’energia sono destinati a rimanere molto bassi per lungo tempo.
E’ ancora presto per pensare che le difficoltà economiche possano ridimensionare a breve termine il nuovo attivismo di Mosca, specialmente nella regione mediorientale.
Ma è chiaro che quella di Vladimir Putin è una corsa contro il tempo e che la forbice tra le riforme strutturali che dovrebbe ma non può fare e la politica di potenza che fa ma non può permettersi, è inevitabilmente destinata ad allargarsi.