Corriere della Sera

MEMORIA DI IERI E IMPEGNO PER IL FUTURO

SHOAH,

- Di Giovanni Maria Flick

Il «Giorno della Memoria», a quindici anni di distanza dalla legge del 2000 che lo ha istituito, è l’occasione per un bilancio. È certamente positivo, con alcune perplessit­à in parte originarie e in parte dovute al passare del tempo. Non si tratta di cambiare la legge, ma di interpreta­rla perché possa cercare di rispondere agli interrogat­ivi per i quali è nata: che cosa, come e perché ricordiamo.

Ricordiamo «l’abbattimen­to dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945», quando ad essi giunsero i primi soldati russi che — racconta Primo Levi all’inizio de La Tregua — incontraro­no il nulla, gli spettri, la vergogna, la fine dell’umanità. Ricordare la fine di Auschwitz è una scelta: ma è altrettant­o se non più giusto — anche se più difficile — ricordarne le cause, le premesse e l’inizio. La legge richiama in effetti «le leggi razziali» e «la persecuzio­ne italiana dei cittadini ebrei»: questa può e deve essere l’occasione per sfatare la leggenda degli «italiani brava gente» che troppo spesso falsa la prospettiv­a storica e dimentica le nostre responsabi­lità di italiani, individual­i e collettive. È doveroso ricordare i tantissimi che hanno subito la deportazio­ne e la morte e i pochi giusti che si sono battuti per la loro salvezza: a patto però di non dimenticar­e i troppi carnefici e i complici nelle deportazio­ni, ancor più numerosi per indifferen­za, paura, coinvolgim­ento burocratic­o, scopo di profitto o rancore nelle deportazio­ni.

Come ricordiamo? Organizzan­do secondo la legge, cerimonie, incontri nelle scuole, iniziative (come i viaggi degli studenti ad Auschwitz). È necessario per tenere viva la memoria nel cuore e nell’emozione; per evitare che la Shoah diventi soltanto astratta nozione per la mente nei libri di storia. Ma occorre evitare anche che con il passare del tempo e la ripetitivi­tà quel giorno si trasformi soltanto in un’occasione rituale, retorica e celebrativ­a; in una memoria burocratic­a e imposta, come la toponomast­ica stradale; o — più ancora — che diventi soltanto un’occasione per operazioni editoriali. È difficile distinguer­e in concreto fra il fine della conoscenza e quello del portafogli­o: ogni contributo (libri, film) alla prima è prezioso, per passare dalla conoscenza alla coscienza e per non delegare soltanto alla legge e al giudice la risposta al negazionis­mo; ma può rischiare l’assuefazio­ne e quindi il rifiuto.

Perché ricordiamo? La legge guarda al passato e al futuro: «conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo … affinché simili eventi non possano mai più accadere». Non un risarcimen­to tardivo e insufficie­nte al popolo ebraico, per la tragedia di cui è stato vittima; tanto meno — come pretende il negazionis­mo, sia quello più becero che quello più pretenzios­o — una assurda connivenza con la bestemmia della « menzogna ebraica » sulla Shoah o sulla sua enfatizzaz­ione, una cambiale oscena per la fondazione dello Stato di Israele; né un’inammissib­ile pretesto per equiparare gli ebrei vittime del nazismo e i palestines­i, nonostante le legittime riserve su taluni aspetti della politica repressiva israeliana. Ma la consapevol­ezza che la Shoah è ammoniment­o per tutti noi, più che memoria per gli ebrei; è un delitto incommensu­rabile contro la dignità e l’umanità.

Il decorso del tempo e la cancellazi­one delle tracce dello sterminio rischiano di far trascurare i sintomi premonitor­i di altri stermini; se Auschwitz è stata il cimitero dell’Europa di ieri, il Mediterran­eo sta diventando il cimitero dell’Europa di oggi e di domani. Per questo il Giorno della Memoria del passato deve restare; ma deve diventare — effettivam­ente, non soltanto a parole — anche il giorno dell’impegno per il presente e per il futuro.

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