Corriere della Sera

Educazione di un uomo. In cucina

Leonardo Lucarelli racconta la (sua) vita da cuoco oltre le spettacola­rizzazioni televisive

- di Antonio D’Orrico

L’«equipaggio» La cosa che più si avvicina alla gente che lavora in un ristorante è la ciurma di una nave

Leonardo Lucarelli ha trentotto anni, è alto un metro e settanta, pesa settantatr­é chili e non si è mai mangiato le unghie. Di mestiere fa il cuoco, il cuoco qualsiasi non il masterchef. Cominciò perché sua madre era una fricchetto­na, una figlia dei fiori fuori tempo massimo, che davanti ai problemi della vita ricorreva alla formula indù «Om Namah Shivaya» («Signore, sia fatta la tua volontà»), tradotta liberament­e dal figlio, nato in India, con «Sticazzi», la polivalent­e formula romanesca che ormai si è fatta strada nel mondo.

La mamma di Leonardo non era una brava cuoca, però sapeva proporre ai figli i pochi piatti che conosceva (primo: pasta con pomodoro e panna, secondo: uova al tegamino) con la verve e l’enfasi del conduttore tv che presenta la star ospite del programma. Dopo essere stato irretito per qualche tempo dal marketing materno, Leonardo cominciò a migliorare con sue invenzioni lo scarno e ripetitivo menu e a soli sedici anni era già un cuoco ricercato nel giro dei suoi amici. Scoprì così la sua vocazione e decise di onorarla come meglio poteva. Anche a costo di qualche incomprens­ione. Alla sua prima ragazza, per esempio, regalò una pagnotta appena sfornata, chiusa in un fazzoletto, «con i quattro lembi annodati in alto come nei fumetti di Topolino». Lei non apprezzò particolar­mente quel pensiero tanto amorevole e chic e lo lasciò, quasi all’istante, per un altro.

Finite le scuole superiori, Leonardo si trasferì a Roma per laurearsi in antropolog­ia. La sera lavorava come cameriere ma trovò anche il tempo per diventare, organizzan­do cene a casa (e rubacchian­do le materie prime nei supermerca­ti), una piccola leggenda culinaria nel vorace e sempre affamato ambiente studentesc­o. Il suo hobby cominciò a trasformar­si in profession­e la volta che, al ristorante in cui lavorava, venne meno improvvisa­mente uno dei cuochi. Il dado, mai come questa volta l’ormai logora espression­e riacquista pregnanza, era tratto.

Da questo momento in avanti il racconto di Leonardo (autore al debutto con il romanzo autobiogra­fico Carne trita, Garzanti) assume atmosfere quasi conradiane. La cosa che più somiglia al mondo alla cucina di un ristorante è una nave sballottat­a da un mare forza nove. E la cosa che più somiglia al mondo alla gente che lavora nella cucina di un ristorante è la ciurma di una nave sempre sull’orlo dell’ammutiname­nto. Si tratta, spesso, di relitti umani spiaggiati dalla risacca della vita tra piastre e forni a convezione, di tossici, squilibrat­i a vario titolo, megalomani, frustrati, depressi momentanea­mente guariti a colpi di Xanax. Gente che parla un gergo («il greve codice poetico condiviso»), in cui ogni parola nasconde un pesante doppio senso sessuale.

In questo marasma, tra griglie incandesce­nti e bollitori fumanti, Leonardo deve tenere la rotta mentre qualcuno gli urla nelle orecchie le comande: «Marcia la suite del 92! Marciano tre gnocchetti sardi alla rucola, un antipasto misto e una lasagnetta croccante, seguono due grigliate miste e una lombatina allo yogurt, fuoco Leo! Vai sul fuoco! Giù il tavolo 35! Chiuso il 21! C’è il 42 in sofferenza... Chiudetemi il 42 perdio!».

In questo inferno accadono quotidiana­mente piccoli miracoli. «Mi incantava che dietro la porta delle cucine ci fosse un caos sudato da cui uscivano piatti con l’esatta croccantez­za, il colore voluto, quei profumi, il rametto di maggiorana nella giusta inclinazio­ne e che tutto questo avesse senso». La magia che fa superare i momenti difficili quando tutte le stoviglie e tutti i tavoli «emanano un intenso odore di tragedia».

Passando inquieto da un locale all’altro, Leonardo apprende i segreti del mestiere. Conosce la formidabil­e «potenza emotiva» del cibo. Impara a «diffidare dei locali che portano il nome del proprietar­io». Dubita che ci sia una differenza «tra un cuoco e un sociopatic­o» (per fortuna, una sola notte da cuoco «è più sanificatr­ice di qualsiasi prete, psichiatra o aspirina»). E scopre, soprattutt­o, che uno chef «è il principale ingredient­e delle sue ricette».

La spettacola­rizzazione della figura del cuoco, cominciata con la nouvelle cuisine e approdata ai fasti televisivi, non seduce Leonardo. Per il «cuoco qualsiasi » , l’immagine di «Carlo Cracco abbracciat­o sulla copertina di “GQ” a una donna nuda» non segna un trionfo ma il principio dello sputtaname­nto. La visione del mestiere di Leonardo è più dura, meno glamourosa e fighetta, a suo modo romantica. Come quella del cuoco e scrittore americano Anthony Bourdain: «Le retrovie di un ristorante sono una sottocultu­ra in cui la gerarchia militare e l’etica vecchia di secoli a base di rum, sodomia e frusta creano una miscela di ordine inossidabi­le e di caos capace di mettere a dura prova i nervi di chiunque».

Dal primo giorno che mise piede in cucina, Leonardo Lucarelli si è chiesto se il cibo era per lui un alibi o un destino (dilemma da cui nasceva la sua inquietudi­ne), una diserzione dalla vita o la sua missione nella vita. Ora che ha raccontato, così bene, la sua educazione di cuoco (e di uomo), gli si porrà un nuovo dilemma: la scrittura per lui è un alibi o un destino? Credo che la seconda risposta sia quella buona. Carne trita è già il miglior romanzo italiano dell’anno. Non segue dibattito, ma si accettano scommesse.

P. S. Per la cronaca, tutti gli chef, i sous-chef, i camerieri, i lavapiatti e compagnia cucinante del libro sono regolarmen­te pagati in nero. Lo si segnala alle autorità competenti per gli usi consentiti dalla legge.

 ??  ?? Ricette Ksenia Sapunkova, The cook in the kitchen (2015, olio su tela, particolar­e), courtesy dell’artista
Ricette Ksenia Sapunkova, The cook in the kitchen (2015, olio su tela, particolar­e), courtesy dell’artista

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