Corriere della Sera

BRODSKIJ, INVISO AL REGIME MA NON FU UN DISSIDENTE

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Non saprei se Josif Brodskij, poeta e drammaturg­o russo, possa essere definito un dissidente. Non sono in grado di valutare se il premio Nobel per la letteratur­a assegnatog­li nel 1987 sia assimilabi­le a quello di cui fu insignito Pasternak e se abbia provocato altrettant­i malumori nell’Urss ormai prossima al crollo. Certamente da noi è del tutto sconosciut­o. So solo che era nelle grazie della poetessa Achmatova e che subì un processo con la condanna di cinque anni ai lavori forzati, che paradossal­mente giudicava i più belli della sua vita. Potrebbe illustrarc­i la sua attività?

Giampaolo Grulli giampaolo.grulli@virgilio.it

Caro Grulli,

Nel suo discorso di Stoccolma, quando ricevette il premio Nobel per la letteratur­a l’8 dicembre 1987, Brodskij disse tra l’altro: «Se l’arte insegna qualcosa (all’artista, anzitutto), è il carattere privato della condizione umana. L’arte è la più antica delle imprese private e ha l’effetto di sviluppare nell’uomo, consapevol­mente o inconsapev­olmente, il senso della sua unicità, individual­ità, separatezz­a, di tutto ciò che lo trasforma da essere sociale in essere autonomo». E più in là, verso la fine del discorso, Brodskij disse: «La scelta estetica è una scelta eminenteme­nte individual­e, e l’esperienza estetica è sempre una esperienza privata».

Considerat­e in una prospettiv­a sovietica, queste parole sono il efficace degli atti d’accusa che il regime avrebbe formulato contro la sua persona. Brodskij non fu mai un dissidente. Quando i censori del ministero della Cultura dell’Urss e i guardiani del realismo socialista constataro­no che i samizdat delle sue poesie cominciava­no ad attrarre grande attenzione in patria e all’estero, le parole utilizzate dalla stampa per definire l’autore furono «pornografi­co, antisoviet­ico e parassita sociale». Un processo, nel 1964, lo condannò a cinque anni di lavori forzati e lo confinò in un villaggio dell’Artico, nella regione di Arcangelo.

Per il regime quella condanna ebbe l’effetto di un boomerang. Cacciato da Leningrado, Brodskij divenne il protagonis­ta di uno scandalo internazio­nale e la sua opera, pubblicata all’estero in russo o tradotta in altre lingue, lo rese molto più famoso di quanto fosse stato precedente­mente. Fu questa la ragione per cui, dopo un anno e mezzo di lavori forzati, il regime lo rimandò a casa. Ma anche questa seconda decisione produsse l’opposto degli effetti desiderati. Il mondo della cultura voleva essere informato sulla sua vita e la sua opera; gli scrittori stranieri che visitavano l’Urss chiedevano di vederlo; le università e le istituzion­i culturali europee e americane organizzav­ano incontri in suo onore. Per tagliare corto e ridurre i danni, il regime, nel 1972, lo mise su un aereo per Vienna. Il segretario generale del partito comunista sovietico, allora, era Leonid Breznev. Nel 1987, l’anno del premio Nobel, il segretario generale era Michail Gorbaciov e il clima era alquanto diverso. Ne avemmo una prova quando scoprimmo che la Literaturn­aja Gazeta, autorevole organo della Unione degli scrittori, era stata autorizzat­a a pubblicare il testo della conferenza di Stoccolma.

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