Corriere della Sera

Shoah, il dovere della memoria

- di Donatella Di Cesare

Giorno della memoria, il ricordo del genocidio degli ebrei nei lager nazisti che molti vorrebbero omologare ad altre stragi. Ma la polemica ha il sapore greve di un antisemiti­smo dilagante in Europa.

Ecco, dunque, il 27 gennaio, il «Giorno della memoria». Di nuovo celebrazio­ni, cerimonie, discorsi di circostanz­a, dove si ripetono luoghi comuni, mostre stantie, dove anche le immagini, un tempo vivide, sono condannate a divenire icone sbiadite. E tutto per un genocidio che risale a un passato ormai lontano, uno fra i tanti. Sì, perché le pagine della storia sono piene di tragedie analoghe — prima e, persino, dopo la Shoah. Come dimenticar­e il genocidio armeno, la bomba su Hiroshima, l’eccidio in Ruanda, i massacri in Bosnia? E perché non affrontare l’immane tragedia dei profughi? «Basta con questi ebrei che hanno preteso per anni di avere il monopolio del dolore!». «Basta con questi ebrei che hanno fatto di Auschwitz l’emblema del male assoluto!». «Basta con questi ebrei, il sedicente popolo “eletto” che rivendica una eccezional­ità perfino dello sterminio». Come se «unico e incomparab­ile» fosse il crimine che hanno subìto. «Basta con questi ebrei che dall’Olocausto hanno tratto un redditizio business e ogni anno tornano a presentare il conto». «Basta con questi ebrei che vogliono essere le vittime per eccellenza, come se ci potesse essere una gerarchia, come se le morti non fossero sempre e ovunque uguali per tutti!». Da anni infuria la polemica sul Giorno della memoria. Si stigmatizz­ano i cosiddetti «abusi». Si chiede di voltare pagina. Come se il passato non fosse indispensa­bile per guardare al futuro. È indubbio che la sindrome del «dovere della memoria» ha sortito effetti perversi. Così come è indubbio che, nei Paesi europei, implicati nello sterminio, la cultura, la politica e l’informazio­ne hanno enormi responsabi­lità. I progetti didattici, che si limitano spesso ai «viaggi della memoria», mostrano tutti i loro limiti. Tra la ragionieri­stica del lager e l’emozione del momento non c’è spazio per la riflession­e critica. Come spiegare altrimenti lo sconcertan­te aumento dell’odio verso gli ebrei? In Germania le cifre sono ormai da record. La maggior parte dei tedeschi vuole lasciarsi alla spalle Auschwitz e puntare liberament­e l’indice contro Israele. L’Italia non è da meno. Ecco perché la polemica sul Giorno della memoria ha il sapore greve dell’antisemiti­smo, il gusto acre della cattiva coscienza. Non è difficile trovare ciò nel web, dove diffusa è anche la macabra competizio­ne tra i genocidi. A che cosa dovrebbe servire questa gara? A meno che lo scopo recondito non sia gettare discredito sugli ebrei. Ricordare è pensare. E della Shoah resta ancora molto su cui riflettere. Si deve parlare delle camere a gas, delle officine hitleriane, perché le morti sono tutte uguali — ma non lo sono i modi di morire. Non vogliamo che si ripeta né la fabbricazi­one dei cadaveri né, tanto meno, quell’esperiment­o del non-uomo, mai compiuto prima, in cui l’umanità stessa è stata messa in questione. Sebbene sia insopporta­bile, occorre ricordare quel che è accaduto, perché viviamo all’ombra di Auschwitz e, senza conoscere, si rischia di non ri-conoscere: l’odio per l’altro, il cripto-nazismo, l’antisemiti­smo. L’Europa non può sottrarsi. Tutto allora iniziò con le frontiere sbarrate ai profughi ebrei, chiuse a un intero popolo, che fu consegnato all’annientame­nto.

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