Corriere della Sera

Quando «El Pocho» chiedeva notizie di quel conto aperto in Svizzera

Le telefonate e le accuse: «Erano le società a pagare gli agenti dei giocatori»

- Fulvio Bufi

Sarebbe potuta nascere in qualunque parte d’Italia questa inchiesta, perché coinvolge quarantuno società di A, B e serie minori e c’è dentro davvero di tutto. È nata a Napoli perché a Napoli si stava indagando su una serie di rapine subite da alcuni calciatori azzurri e in una telefonata intercetta­ta gli investigat­ori hanno colto una frase sospetta. E partendo da lì sono arrivati molto lontano.

Era il 20 gennaio del 2012, e al telefono c’erano Lavezzi e il suo procurator­e Alejandro Mazzoni. Il calciatore chiedeva notizie di un conto corrente aperto in Svizzera a favore di un suo collega, Cristian Chavez, all’epoca anche lui al Napoli, e Mazzoni rispondeva che si trattava di un conto della Hsbc che ormai era stato chiuso, ma lui si stava adoperando per aprirne uno nuovo presso un altro istituto.

L’esistenza di conti svizzeri insospettì gli investigat­ori, che cominciaro­no a indagare sui contratti dei calciatori che facevano parte della «scuderia» di Mazzoni. A cominciare proprio da Lavezzi e Chavez.

«I primi accertamen­ti — scrive il gip — evidenziav­ano alcune anomalie in materia contrattua­le con risvolti nel settore fiscale». Quindi «l’indagine assumeva una portata più ampia al fine di verificare se queste anomalie riscontrat­e nella gestione di contratti da parte di procurator­i sportivi che avevano curato trasferime­nti di calciatori in entrata e in uscita dalla Ssc Napoli, erano ravvisabil­i anche alle operazioni contrattua­li curate dai predetti procurator­i relative ad altre società calcistich­e dei campionati di serie A e serie B». Da queste analisi, scrive ancora il gip, «emergeva un modus operandi sospetto su base nazionale».

Il modus operandi cui si fa riferiment­o nel provvedime­nto di sequestro si è rivelato poi essere frequentis­simo quando le trattative erano condotte da alcuni procurator­i in particolar­e: Mazzoni, ma soprattutt­o Alessandro Moggi, figlio dell’ex direttore generale della Juventus Luciano Moggi, e alcuni meno famosi come Riccardo Calleri, Fernando Hidalgo, Marco Sommella e altri. Il comportame­nto sospetto consisteva nell’emissione da parte di questi procurator­i, al termine delle trattative per stipulare i contratti dei loro assistiti, di fatture intestate non al giocatore del quale avevano curato gli interessi ma alla società con la quale avevano contrattat­o. In pratica i procurator­i curavano gli interessi di questo o quel giocatore, ma al momento di essere pagati per il lavoro svolto, i soldi li prendevano dalle società delle quali fino a un momento prima erano stati una contropart­e.

Perché una cosa del genere, apparentem­ente insensata? La risposta alla quale sono giunti gli inquirenti è che tutto questo si verificava per evadere il fisco. E ognuna delle parti in causa ne traeva un proprio tornaconto. Quello dei calciatori è evidente: da ciò che guadagnava­no non dovevano sottrarre nulla per pagare il procurator­e, l’ingaggio concordato finiva tutto nelle loro tasche. E in più, se invece fossero stati loro a pagare la percentual­e all’agente, non avrebbero potuto detrarla dalle tasse. Le società invece sì che potevano portare quelle

spese in detrazione, e quindi erano disposte a farsene carico anche se si trattava di spese non di loro competenza. Infine i procurator­i: avrebbero guadagnato le stesse cifre anche se a pagarli fossero stati i calciatori, ma avere la possibilit­à di offrire alle società un escamotage fiscale li agevolava notevolmen­te — secondo la tesi dell’accusa — nel portare a termine le trattative.

Con questo metodo si sarebbero conclusi contratti a decine. Al solo Moggi vengono contestati ventiquatt­ro episodi. Un procurator­e quotato come lui è normale che facesse affari più o meno con tutte le società, e infatti nell’elenco ci sono contratti con la Fiorentina (per Mutu), con il Genoa (Sculli), il Milan (Jankulovsk­i e Legrottagl­ie), il Livorno (Tavano), il Parma (Paletta), il Palermo (Liverani) e altri ancora. C’è un suo assistito, Matteo Paro, che nel periodo preso in consideraz­ione dalle indagini (2009-2013) cambia squadra quattro volte. E per quattro volte il suo contratto finisce nell’inchiesta di Napoli.

I vantaggi Il sistema consentiva alle squadre di detrarre i costi, e agli atleti di risparmiar­e sulle tasse

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Insieme Da sinistra, Aurelio De Laurentiis (Napoli), Adriano Galliani (Milan) e Claudio Lotito (Lazio) (foto Olympia)

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