Corriere della Sera

LO SFORZO DI DEMOLIRE LA NOSTRA LINGUA

AUTOLESION­ISTA

- Di Adolfo Scotto di Luzio

Join the Navy, «entra in marina». L’ invito non viene da Annapolis, Maryland, dove ha sede la più importante accademia navale degli Stati Uniti d’America. Più domesticam­ente, da Roma. Lo slogan compare sui manifesti che in questi giorni annunciano nelle nostre città la nuova campagna di reclutamen­to della Marina militare italiana. Dopo il «Be cool and join the Navy» del 2015, qualcosa che in italiano suona come «Fai il fico ed entra in marina», lo Stato maggiore insiste con un giovanilis­mo di maniera che si pretende dinamico e internazio­nale ma che, riferito a un’istituzion­e militare della Repubblica italiana, suona alquanto privo di senso.

Non c’è dimensione pubblica del nostro Paese, ormai, che non sia affidata a pubblicita­ri e creativi di ogni risma per i quali l’uso dell’inglese è diventato una specie di tic nervoso. Clamoroso è lo slogan inventato per Roma, RoMe & You, «Roma, Io e Te», che ha finito per renderne irriconosc­ibile finanche il nome. Un paradosso non da poco per chi, dovendo vendere un marchio, lo confonde sotto un gioco grafico e linguistic­o buono, forse, per una paninoteca dalle parti di Campo de’ Fiori.

Non fa eccezione a questo andazzo sciatto e autolesion­istico il ministero della Pubblica istruzione. Da tempo nella scuola italiana circola un nuovo latinorum che mescola alle vecchie formule della burocrazia un gergo monotoname­nte ripetitivo degno di un call center. Basta prendere il piano della scuola digitale del Miur e aprirlo a caso. È un succedersi di Accelerati­on Camp, percorsi di accelerazi­one per stimolare lo spirito di intrapresa nei giovani. Ci sono i Contaminat­ion Lab, luoghi di contaminaz­ione interdisci­plinare. Le studentess­e patiscono i confidence gap, il pregiudizi­o di genere in ambito scientific­o e tecnologic­o. Il ministero risponde con «Girls in Tech & Science». Su questo linguaggio c’è poco da dire, se non che è refrattari­o a qualsiasi elaborazio­ne intellettu­ale.

Ma che dire, invece, dello obbligo d’insegnare in lingua straniera una materia non linguistic­a imposto nelle scuole superiori, in quinta? È il famigerato Clil, acronimo inglese, che sta per apprendime­nto integrato di lingua e contenuto. Nasce dalle escogitazi­oni multilingu­istiche di un esperto di origini australian­e che fa base in Finlandia. Si prefigge il conseguime­nto di un livello di estrema generalizz­azione linguistic­a al di sopra delle differenze «dialettali» fra cittadini europei. Un progetto di vasta portata, per chi lo ha concepito; un’idea, invece, da pezzenti culturali a ben vedere. Non si danno più ore alle lingue straniere. Né si assumono insegnanti specialist­i. Niente di tutto questo.

Si sottraggon­o, invece, al dominio dell’italiano contenuti culturali importanti e insieme si svilisce il valore di questi stessi contenuti, riducendol­i a mero supporto della lingua straniera. Soprattutt­o, se il ministero presuppone negli insegnanti certificaz­ioni linguistic­he che di fatto non posseggono, dà per scontato che gli studenti siano in grado di prendere attivament­e parte a lezioni in lingue che non padroneggi­ano. Gli effetti semplifica­tori sui contenuti saranno, inevitabil­mente, disastrosi.

La lingua, tanto quella straniera che l’italiano, qui è concepita come un mero strumento e non come un terreno sul quale sorgono, nel tempo, pensieri e idee, sentimenti. In questo modo gli italiani vengono educati, fin dalle aule scolastich­e, a formarsi un’ immagine opaca del mondo per mezzo di parole generiche e vuote.

Da qualche tempo si sente ripetere che l’Italia è tornata protagonis­ta. Per il momento sembra più che altro sommersa dalla fuffa.

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