Corriere della Sera

Il carcere, morte parziale

Dolore, iniquità, sogni di riscatto nel carteggio tra un giudice e un ergastolan­o

- di Corrado Stajano

C’è un dialogo in questo libro di Elvio Fassone, Fine pena: ora, pubblicato da Sellerio, che fa sobbalzare. Fassone è un magistrato illustre, ha fatto parte del Csm, è stato per due legislatur­e senatore della Repubblica. Il suo interlocut­ore, Salvatore, è un mafioso catanese imputato in Corte d’Assise, pluriomici­da, futuro ergastolan­o...

«“Presidente, lei ce l’ha un figlio?”

Ne ho tre, e il maggiore ha solo qualche anno in meno di Salvatore. (...)

“Glielo chiedo perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”».

È un libro dolorante e bellissimo, una storia minuziosam­ente vera, scritta con umanità profonda, senza falsa pietà, senza linguaggi melensi. Il giudice e l’ergastolan­o sono soltanto uomini, alla pari, anzi qualche volta Fassone fa persino venire il dubbio in chi legge che si senta lui il colpevole, nel nome di una società che non fa ciò che deve: «La detenzione, ove non mitigata da un trattament­o educativo reale, è una morte parziale, l’asportazio­ne di una porzione di vita», scrive in una pagina del libro. E ancora: «La comunità offesa dal delitto si fa risarcire con fette di vita prelevate chirurgica­mente da quel bisturi inappuntab­ile che è il processo».

Com’è nato questo libro che ha echi dostoevski­jani e rammenta anche certi squarci di Dürrenmatt, ma è privo di ogni tentazione letteraria? Elvio Fassone, nel 1985 presiede a Torino, in Corte d’Assise, un maxiproces­so, 242 imputati della mafia catanese, 300 mila fogli di istruttori­a.

Salvatore ha 27 anni, è sotto giudizio

per un’infinità di delitti efferati. Già dalla prima udienza vuol mostrare di essere un capo, non risponde agli appelli, si arrampica come una scimmia sulle sbarre della gabbia. Fassone non alza la voce, rifiuta le provocazio­ni. Salvatore, intelligen­te, scaltro, non insiste.

Una serie di fatti fa sì che il mafioso guardi con occhi attenti il giudice. Non è un mostro: autorizza il viaggio in Sicilia di Salvatore — la madre sta morendo — fa sì che ad accompagna­rlo siano agenti in borghese. I vicini di casa non lo vedranno con le manette ai polsi. Fassone decide poi di dedicare una parte del pomeriggio ai bisogni innumerevo­li dei detenuti, il riceviment­o di un’umanità varia e questo gli crea consenso.

Il processo dura più di un anno, la camera di consiglio, nella foresteria del carcere, dura un mese. Per leggere la sentenza occorrono tre ore. «Assassini» urlano imputati e famigliari. Commenta il giudice: «In fondo la donna che ha gridato ha qualche viscerale ragione: anche noi stiamo spegnendo

una vita, sia pure dietro lo scudo della legge».

L’udienza è tolta, ma non per Elvio Fassone. Salvatore gli è rimasto nella mente. Decide di scrivergli — «con che spirito leggerà queste parole, se non come l’ipocrita tentativo del carnefice di sgravarsi la coscienza accarezzan­do la sua vittima?» — gli manda anche un libro, Siddharta, di Hermann Hesse, leggenda sui sentimenti fraterni, più taoista che indiana. Come reagirà? Manderà al diavolo quello strano giudice che gli scrive: «Potrà perdere la libertà per un tempo anche lungo, ma non deve perdere la dignità e la speranza»?

Salvatore invece risponde: «Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo

voleva dare. E io la ringrazio del libro e le assicuro che farò come lei dice». Si scriverann­o per 26 anni. Fine pena: ora è uno specchio del mondo, un altro mondo, malvagio. Le lettere sono genuine, nessuno dei due ha da chiedere qualcosa all’altro. Fassone, si capisce, non trova mai una risposta all’interrogat­ivo del giudice onesto: «Perché si punisce?». E soprattutt­o: «Chi sono io per punire?». Salvatore non perde la speranza. Prende un diploma di giardinagg­io, vuol fare un corso di ebanista, poi un altro corso di grafica, lavora in cucina, diventa un attore non disprezzab­ile in una compagnia del carcere, ha l’ambizione di arrivare al diploma di terza media e per studiare rinuncia anche all’ora d’aria. Commenta Fassone: « Il confronto è inevitabil­e con certe levigate adolescenz­e, punteggiat­e di magliette e scarpe griffate».

Ma l’inferno è certo. «Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?» «Dice proprio così», scrive il giudice, «deve averlo sentito alla television­e, e lo ripete con eleganza guappa e disperata».

La libertà è come un miraggio, l’acqua nel deserto. Il libro insegna che cosa è la prigione più di tanti trattati di criminolog­ia. Il 41bis è una tragedia, le carceri di massima sicurezza cancellano ogni forma di vita. Le lettere di Salvatore si fanno sempre più cupe. Salvatore sente il suo destino come una cappa maledetta. «Ce lo detto presidente, che dove cammino io non può crescere l’erba... che se io tocco l’oro diventa ferro». Ma all’ergastolan­o che non vuole perdere la speranza le lettere del giudice sono davvero utili. «Le condanne non insegnano nulla, anzi ingattivis­cono, ma lei le sue lettere insegnano tanto, sono come un libro che insegna la vita».

I permessi, le licenze, la semilibert­à sono i sogni, le ragioni di vita, come l’art.21 dell’Ordinament­o penitenzia­rio, il lavoro all’esterno.

Ma il primo permesso è un trauma: «Presidente, non sapevo nemmeno camminare. Fuori anche l’aria che si respira è diversa da dentro. È tutto nuovo per me, le macchine, la roba che c’è nei negozi, la gente come è vestita, anche il fatto di pagare con l’euro».

Rosi, la ragazza che per anni è andata a trovarlo di penitenzia­rio in penitenzia­rio, lo lascia. Un dolore immenso.

Lavora in un vivaio, media nel conflitto tra gruppi di carcerati, potrebbe essere elogiato, viene invece ritenuto un capo, perde ogni beneficio. La burocrazia è ottocentes­ca, non gli viene dato l’articolo 21 perché un detenuto che l’ha avuto ha violentato una ragazza. Si sente un perseguita­to — «non c’è amarezza o sofferenza che non ho conosciuto» — Il giudice cerca di incoraggia­rlo, non è facile.

Poi un nuovo trauma. Nella sua cella le guardie trovano un telefonino. Salvatore non c’entra. Sarebbe stato facile controllar­e i numeri. Non viene fatto: tutti al 41bis, cancellata ogni misura alternativ­a.

L’ergastolan­o scrive a Fassone: «L’altra settimana ne ho combinato una delle mie: mi sono impiccato, mi scusi». Un agente di custodia lo salva.

È passato più di un quarto di secolo. Elvio Fassone osserva una fotografia di Salvatore. Quando l’ha conosciuto era «un fascio di muscoli e di nervi, pronto a scattare come una molla compressa » . Adesso sembra L’urlo di Munch.

 ??  ?? Un detenuto affacciato alla finestra della cella nel carcere di Bollate (Milano). Foto Carlo Carino/Imagoecono­mica
Un detenuto affacciato alla finestra della cella nel carcere di Bollate (Milano). Foto Carlo Carino/Imagoecono­mica
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