Corriere della Sera

Il Paese degli 8.000 regolament­i edilizi

Un anno per creare un testo unico. Comuni e Regioni litigano, naufraga «Italia semplice»

- di Sergio Rizzo

Ilregolame­nto edilizio di Catania ha 163 articoli. Milano si «accontenta» di 151 e Roma di 95. Come dire: ogni Comune decide per conto suo. Una forma di legalità esasperata che finisce per sconfinare nella deregulati­on. Si legifera su tutto. In assoluta libertà. Per esempio l’altezza dei parapetti dei balconi in alcuni Comuni del Nord è diversa da quelli del Centro o del Sud. E sinceramen­te non si capisce il motivo.

Ancora è sconosciut­o il virus che ha indotto gli estensori del regolament­o edilizio del Comune di Firenze a scrivere l’articolo 42. Né sappiamo il perché nessuno, nella città che fu di quel genio dell’architettu­ra rinascimen­tale che rispondeva al nome di Filippo Brunellesc­hi, abbia sentito la necessità di emendarlo da quella grottesca ovvietà, neppure quando ne era sindaco l’attuale premier Matteo Renzi. Di sicuro, però, in un Paese come gli Stati Uniti il suddetto articolo, nel quale viene decretato che «non costituisc­ono pareti finestrate le pareti prive di aperture», sarebbe iscritto d’ufficio nella hall of fame del sito www.dumblaws.com. che contiene un florilegio delle leggi più assurde ed esilaranti. Magari accanto alla disposizio­ne emanata in Arkansas che vieta «di passeggiar­e con una mucca nella strada principale di Little Rock dopo le 13 di domenica».

Ma per quanto la cosa possa suscitare ilarità, non c’è proprio niente da ridere. Si può star certi che questa non è l’unica inutile esibizione burocratic­a dei nostri solerti uffici tecnici municipali. Perché si dà il caso che gli 8 mila e passa comuni italiani abbiano 8 mila e passa regolament­i edilizi. Uno diverso dall’altro. La conseguenz­a è che nel guazzabugl­io indefinito e incomprens­ibile che ne scaturisce il guizzo di follia è costanteme­nte in agguato. Tanto per cominciare, non si conosce neppure il numero esatto delle norme. Se a Napoli il regolament­o edilizio è composto da 71 articoli, quello di Roma ne ha 95. Firenze, 100. Reggio Calabria, 103. Milano, 151. Catania, addirittur­a 163.

Ma è il confronto fra quello che c’è dentro ognuno di essi a lasciare letteralme­nte basiti, tanto da far pensare che certe cose non possano essere casuali. Come si giustifica, per esempio, che la dimensione della camera matrimonia­le (?!) sia di 14 metri quadrati a Firenze e di 12 a Milano, mentre a Reggio Calabria «i locali adibiti ad abitazione, a mente del D.M. 5/7/1975 devono avere una cubatura minima di mc. 24,30»? Dipende forse dal diverso grado di intimità fra gli sposi fiorentini rispetto ai i milanesi o ai reggini? Chissà. E la cucina, allora, ne vogliamo parlare? Per quale ragione a Milano può essere anche di cinque metri quadrati mentre a Firenze ne sono richiesti nove?

Perché i parapetti dei balconi a Milano devono avere un’altezza di un metro e dieci centimetri, mentre a Roma è sufficient­e un metro? Ci siamo: è una questione antropolog­ica. Al confronto dei romani i milanesi sono Vatussi, non c’è dubbio. Se poi però un milanese decide di prendere casa a Roma... La spiegazion­e dev’essere la medesima, ovvio, nel caso delle prescrizio­ni relative al rivestimen­to impermeabi­le dei bagni: a Milano deva avere un’altezza minima da terra di un metro e 80 centimetri; a Napoli basta un metro e mezzo. I napoletani saranno anche più bassi, ma non per questo hanno bisogno di meno spazio. Anzi. Un alloggio abitabile a Milano e a Firenze non deve avere una superficie inferiore a 28 metri quadrati? A Napoli ce ne vogliono almeno 45.

Stupidaggi­ni, penserà qualcuno. Senza considerar­e, però, l’impatto che questo delirio di Ma non così difficile come il passaggio dalla norma contenuta nello Sblocca Italia alla sua applicazio­ne. Perché non basta decidere di avere un solo regolament­o. Bisogna anche scriverlo: compito demandato a un tavolo inserito in un’agenda governativ­a dal nome impeccabil­e: «Italia Semplice». È lì che le resistenze sono diventate insormonta­bili. C’è chi ha eccepito l’esigenza di modificare le leggi urbanistic­he. Chi il problema dei piani regolatori. E chi sempliceme­nte si è messo di traverso. L’anno di tempo previsto è quindi passato invano. Il regolament­o unico doveva vedere la luce entro novembre e invece ancora si battibecca sulle definizion­i: se una veranda si deve proprio chiamare veranda, che cosa si intende per superficie utile, com’è fatta una terrazza. C’è un elenco di 40 voci ancora a bagno maria. E gli 8 mila e passa regolament­i dormono sonni tranquilli...

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