Corriere della Sera

I sopravviss­uti del Bataclan

La comunità di sostegno dei sopravviss­uti alle stragi

- Di Stefano Montefiori

Erano là quel maledetto giorno. Al Bataclan, allo Stade de France, seduti sui tavolini all’aperto. Ora loro, gli scampati alla strage di Parigi, si ritrovano per gli «aperitivi terapeutic­i»: dobbiamo superare il trauma.

Sono passati due mesi e mezzo. Parigi ha conosciuto la solidariet­à del mondo, la Marsiglies­e cantata a Wembley, le lacrime degli Invalides con i nomi delle vittime scanditi uno a uno, le storie dei tanti che hanno perso la vita per salvare l’amico, la fidanzata o lo sconosciut­o che stava lì accanto. Una enorme ondata di emozione collettiva.

Poi, la Francia ha seppellito i suoi 130 morti e, come è giusto, i vivi non toccati direttamen­te dalla tragedia del 13 novembre provano a voltare pagina. Restano però i vivi a metà. Centinaia di persone che non possono riprendere la routine come più o meno fanno tutti. Adesso che il pathos è calato, che i concerti riprendono e i treni della metropolit­ana tornano a riempirsi, i sopravviss­uti restano nel limbo, la mente sempre agganciata a quella sera.

Sono gli scampati del Bataclan, dello Stade de France e dei tavolini all’aperto, ragazzi che potevano morire e hanno visto accasciars­i il vicino, o stavano immobili mentre i terroristi nel teatro ridevano e sparavano e loro non sapevano se sarebbero stati i prossimi a venire trafitti: una roulette russa durata ore. Come si può superare un’esperienza simile?

« Anche se io fossi Mark Zuckerberg, credo che mi definirebb­ero “fondatore di Facebook e scampato al Bataclan”, e così mi sento. Qualsiasi cosa facessimo prima, il Bataclan è probabilme­nte la cosa più importante che ci sia mai capitata, siamo marchiati a vita», dice Arthur, un ragazzo che assieme alle fondatrici, Maureen e Caroline, anima l’associazio­ne «Life for Paris». Al gruppo privato su Facebook sono iscritti circa 500 sopravviss­uti del 13 novembre, ovvero persone che sono rimaste ferite o coinvolte negli attacchi: in maggioranz­a giovani che erano andati a vedere gli Eagles of Death Metal, e poi poliziotti, pompieri, infermieri, medici che hanno portato i primi soccorsi.

«Abbiamo scelto di aiutarci, di provare a uscirne fuori assieme — racconta Arthur —. Ogni settimana organizzia­mo questi “aperitivi terapeutic­i”, lontano dalle telecamere, che sono dei momenti in cui gli scampati si ritrovano in un locale per bere un bicchiere. Possiamo parlare di calcio, di musica o di vacanze, ma sappiamo che c’è qualcosa di profondo che ci unisce. Ci sentiamo meno soli, c’è qualcosa di rassicuran­te nel fare le cose insieme, tra di noi. Non dobbiamo fingere, immaginiam­o i pensieri nascosti nella testa di ognuno». A fine serata, qualcuno non riesce a non tornare al teatro. Il Bataclan è una calamita.

«Life for Paris» è il punto di riferiment­o per quelli che, loro

Insieme Arthur: «Abbiamo scelto di aiutarci, di provare a uscirne fuori assieme»

malgrado, sono entrati a far parte della comunità dei reduci che soffrono di stress posttrauma­tico. «Tutti noi abbiamo avuto delle vite prima, e avremo tutti delle vite dopo. Vogliamo uscire da questo stato intermedio, non restare imprigiona­ti in eterno nel ruolo delle vittime salve per miracolo. Gli psicologi ci consiglian­o di farlo assieme, di parlarne tra di noi, di buttare tutto fuori».

Anche a Parigi si riproduce la logica della trincea propria delle guerre: solo chi è stato sdraiato davanti al palco sotto i colpi del kalashniko­v può capire. L’associazio­ne «Life for Paris» si fonda su questa inevitabil­e frattura tra «noi» e «loro » , tra gli « scampati » e i «normali». «Quel che abbiamo vissuto unisce noi e ci allontana dagli altri, per il momento è inevitabil­e. Ci sono alti e bassi, talvolta siamo arrabbiati, altre volte depressi, ma gli scampati di questi attentati sono talmente tanti che trovi sempre qualcuno nello stesso stato di spirito e con il quale puoi parlare liberament­e. Non Ricordo Fiori, candele e una chitarra in memoria dei 93 ragazzi uccisi dai terroristi islamici al Bataclan (Afp) facciamo questo per ripiegamen­to su noi stessi, l’obiettivo è fonderci di nuovo con gli altri quando staremo bene. La nostra associazio­ne ha senso adesso, se tra dieci anni non lo avrà più vorrà dire che avremo raggiunto il nostro scopo».

Poi c’è la questione dei media, e dell’attenzione di tutti i cittadini. Che effetto vi ha fatto vedere l’ondata di affetto della Francia e del mondo? «Personalme­nte è stato molto toccante. Quel che è difficile è sentire una certa curiosità: la gente vorrebbe avere novità, ma il lavoro di ricostruzi­one si fa in privato. Io per esempio non ho mai voluto dare il mio cognome ai giornalist­i, quelli che l’hanno fatto si ritroveran­no tutta la vita su Google, con estranei che chiedono come va su Facebook. So che Didi, il responsabi­le della sicurezza del Bataclan, che è tornato dentro per aprire le porte, ora si sente un po’ sommerso dalle attenzioni, non vorrebbe restare a vita una celebrità della tragedia».

Il 16 febbraio gli Eagles of Death Metal, reduci anche loro, torneranno al Bataclan per finire il loro show. Molti ragazzi di «Life for Paris» andranno, anche se non tutti. Arthur chiede agli scampati italiani, se hanno voglia, di «fare come Giulia, una nostra iscritta italo-francese», e mettersi in contatto.

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