I Cinquestelle senza direzione e il caso Milano
I grillini appaiono privi di una guida: il fondatore è tornato a fare teatro, Casaleggio resta dietro le quinte, Di Maio è ai box Il pluralismo ora c’è, ma più che una scelta è frutto di confusione
Avederlo dal sagrato del Duomo, con le spalle attaccate al portone della cattedrale, schiacciato dalla spinta di 40 mila persone che riempivano la piazza, Beppe Grillo era un puntino che si agitava sotto al monumento di Vittorio Emanuele II. Mancavano pochi giorni alle ultime elezioni politiche e al momento in cui una intera classe dirigente fu obbligata a chiedersi come era potuto accadere.
«Torna Beppe, io nel 2013 ero sotto al palco per te, non puoi abbandonare i tuoi figli». Il ricordo di quella ormai lontana sera di febbraio è ancora vivo nei militanti che in questi giorni confessano il loro spaesamento di fronte al «passo di lato» reso ufficiale dal fondatore in una intervista al Corriere lasciando commenti malinconici sul blog che raccoglie gli umori della base. Milano è sempre stata un crocevia importante e sfuggente nella vita del Movimento 5 Stelle. Quel comizio, il penultimo dell’ormai mitizzato Tsunami Tour, fu in qualche modo una consacrazione che rivelò la forza di un fenomeno a lungo sottovalutato. Ma in contemporanea con il 25 per cento nazionale che decretò la non vittoria del Pd gettando i partiti tradizionali nel panico, arrivò anche la doccia gelata delle Regionali lombarde, primo indizio di una difficoltà nelle tornate amministrative che si sarebbe poi rivelata il tallone d’Achille dei Cinque Stelle. E qui, a pochi metri da piazza del Duomo, ha sede l’agenzia di Gianroberto Casaleggio, ormai dioscuro solitario, politicamente orfano del più riconoscibile sodale.
Anche la piccola odissea politica e personale della povera Patrizia Bedori, aspirante sindaco negletta e quasi ripudiata, rischia di essere una cartina di tornasole della salute di M5S, se non uno spartiacque. La sua candidatura è nata male, con una non vittoria alle comunarie, il termine è orrendo ma così le chiamano, da terzo incomodo figlio di nessuno. A Milano il Movimento era ed è spaccato a metà. Da una parte gli ultraortodossi, dall’altra un gruppo più pragmatico guidato da alcuni consiglieri regionali. Ognuno aveva il proprio nome in tasca e spingeva per quello, fino ad arrivare alla reciproca elisione. Grazie a un regolamento bizzarro ispirato al metodo Condorcet, che assegnava punti alle diverse posizioni raggiunte in ciascuna singola scheda, Bedori ha ottenuto la nomina a forza di secondi posti, non un bel viatico.
La neo candidata ci ha messo del suo, rivendicando la propria indipendenza da Casaleggio, colui che avrebbe dovuto organizzare la sua campagna elettorale. Da quel momento è cominciata la tortura della goccia cinese. Ogni giorno aveva la sua pena, a cominciare da Dario Fo che ha esternato i propri dubbi, «non mi convince», dando della «ragazza» a una donna di 52 anni, disoccupata e con figlio a carico. Troppa pressione, per una militante pura, a digiuno della politica e delle sue perfidie. E forse troppa inadeguatezza, di tutti, per evitare un risultato disastroso in una città ritenuta fondamentale in previsione di future e più importanti elezioni, che i vertici di M5S ritengono a torto o ragione imminenti.
Il danno di credibilità è stato evidente fin da subito. Fare peggio era difficile, sul piano della comunicazione. L’ipotetica rinuncia di Bedori, auspicata da Casaleggio e dal direttorio che oggi guida M5S, sarebbe stata una soluzione di compromesso in deroga al dogma dell’uno vale uno, ovvero tutto quello che il «vecchio» M5S ha sempre evitato come la peste. La sua stentata conferma invece assume ora il significato di una rinuncia, il lancio della spugna sul ring di Milano. Non è la prima volta che i Cinque Stelle si trovano alle prese con le conseguenze dei loro particolari metodi di selezione. Già nel maggio del 2013 si era posto il problema di candidati non esaltanti in piazze contendibili, vedi alla voce Siena. Ma a quel tempo c’era ancora Beppe Grillo. Raddoppiò i comizi in quella che a causa di Monte dei Paschi era considerata la capitale del malaffare. Perse male, diede la colpa ai cittadini che non capivano ma salvò il principio e tutto proseguì come prima.
La gestione approssimativa della vicenda milanese rivela le difficoltà di un movimento che è diventato plurale per obbligo e non per scelta, ottenendo maggiore libertà di manovra ma perdendo una guida talvolta dittatoriale, comunque chiara. Tutti sanno che durante la crisi di Quarto, storia pesante ma particolare e sovradimensionata, davanti alle pressanti richieste di un intervento giunte dal direttorio che oggi guida M5S, Grillo si è negato più volte al telefono e al computer. Casaleggio non vuole e non può salire alla ribalta. Il patto generazionale alla base della nascita del direttorio prevede una fase di attesa prima del lancio annunciato di Luigi Di Maio, spiegata con la teoria del bersaglio mobile, meglio fare a meno di una figura di riferimento per evitare attacchi. Ma questo comporta una lunga permanenza a metà del guado. A Milano se ne vedono gli effetti. E i militanti nostalgici sembrano essere gli unici ad aver capito che nella politica moderna non avere un volto con il quale identificarsi significa anche non avere una direzione.