Le danzatrici di Valentino Gioielli al posto delle scarpe
Gli abiti-maschera di Viktor & Rolf, le scomposizioni di Margiela
A piedi nudi, sempre. Quale messaggio più libero di questo, ieri con le vestali sulla passerella di Valentino? Lo stesso che portarono avanti leggendarie danzatrice come Isadora Duncan, Loie Fuller e Ruth St. Denis che sfidarono i pregiudizi e ballarono senza scarpe e coperte di veli in nome di una passione intensa e travolgente. Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli fantasticano di una certa affinità con quegli anni ribelli di inizio secolo, quel desiderio di liberare il corpo dalle costrizioni, dalle regole, e un oggi in continuo divenire, fra battaglie sociali e culturali e un comune desiderio di leggerezza . Ecco allora « rivivere » la tunica di broccati preziosi che Mariano Fortuny disegnò per quelle meravigliose donne creando loro un’estetica rivoluzionaria: l’abito che per la prima volta prese le forme di chi lo indossava e non viceversa, cominciando a scoprire individualità ed emozioni nuove.
Così lo spunto nei pensieri e fra le mani degli stilisti si trasforma in un guardaroba da mille e una notte, solo per le notti più favolose e romantiche, dove sono inevitabili le incursioni da Oriente a Occidente (gli orizzonti di Fortuny, il sarto artista dei broccati): pepli in ogni tessuto (dalle sete alle lane, ai velluti), cappe, kimono, abiti colonna, tuniche sovrapposte. Ricami e plissè, intarsi e patchwork. Le tinture fatte in casa sono «consumate» in atelier e il tocco del tempo che è memoria e non nostalgia, bellezza e non tramonto, rende tutto più umano e dunque emozionante. Gioielli sui piedi nudi una sorta di cavigliera-infradito; fra i capelli come corone déco e sulle spalle. Fra le più belle collezioni di questa haute couture parigina, decisamente.
Quanto meno interessante quella di Viktor & Rolf per coerenza e sviluppo. La visione lontana, infantile, di una maglietta polo, il principio. Un colore, il bianco. E poi un tessuto: un piquet tecnico. E un’ispirazione: il cubismo. Gli abiti che diventano facce, bocche, punti interrogativi, plissé e volant. Tuniche, ancora, per lo più. Ogni uscita è a effetto 3D: è come se tutto quello di cui si compone l’abito uscisse fuori. Una performance a ritmo di musica anni Novanta sottolineata dalle dr Martens ai piedi delle modelle.
Sono invece gli anni Ottanta, quelli folli al Palace di Parigi, il corrispettivo del Club 54 di New York, a rivivere sulla passarella di Jean Paul Gaultier. Fu, nel 1978, Grace Jones a inaugurare quel locale nel cuore di Montmartre e che finì
Gli anni Ottanta di Jean Paul Gaultier
L’opulenza dell’India dei maragià nei mille ricami che decorano i pantaloni, le tuniche, i sari di Elie Saab
Gli abiti decostruiti di John Galliano per la Maison Margiela persino negli scritti del filosofo Roland Barthes: i camerieri erano vestiti Mugler ed habituée erano Mick Jagger e Jerry Hall, Andy Warhol e Francois Mitterand, Kenzo e Lagerfeld, Bergé e Saint Laurent, Montana e Castelbajac e, giustappunto Gaultier. La «generazione Palace» così chiamavano quel popolo della notte: paillettes e tweed, calze a rete e chiodi di pelle, pigiami palazzo e vestaglie di raso, smoking e guaine di pelle.
John Galliano sceglie «Les Invalides» per raccontare la sua nuova storia per Margiela: solennità e irriverenza, come è nello stile e nella natura dello stilista britannico. Un luogo che incute soggezione e rispetto ancor di più quando piove, come ieri, e nel varcare la soglia si sente l’odore del
ferro dei cannoni che sono da secoli a guardia del luogo. Il bianco sereno della sala e poi le poltroncine oro riportano all’atmosfera ovattata della couture e poi irrompono le creazioni: un collage alla Galliano di quel che è stato e quel che sarà. Tutto è decostruito (i trench, le giacche, gli abiti, i tailleur, le camicie, i jeans) e poi ricostruito senza una logica apparente ma il risultato è poetico e romantico, decadente e impertinente, sfacciato e grintoso. Ogni pezzo è un capolavoro di artigianato visionario. Ci vuole carattere per indossare questi abiti: gli occhi bistrati, le labbra glitterate, i capelli colorati. No, certo non le meches bionde e il carré!
Fortissimamente India da Elie Saab. Lo stilista libanese non lascia nulla di intentato nell’affrontare il tema: dai colori, ai tessuti, ai ricami, ai tagli tutto racconta dell’opulenza che era dei maragià e dei loro palazzi: tuniche e pantaloni, ma anche sari e drappeggi fra i più complicati. Ai piedi infradito gioiello a rendere ogni uscita più leggiadra e in testa spesso un baschetto a sparigliare e far capire che è la figlia del maragià ora vive a Parigi.
Oriente e Occidente Gli anni Ottanta al Palace di Parigi nella collezione di Gaultier Magia indiana da Saab