IL VOLTO DI UNA DONNA SUI DIECI DOLLARI OBAMA NON DEVE ASPETTARE ANCORA
Per sua fortuna, l’America ha l’imbarazzo della scelta adesso che si tratta di onorare una delle grandi donne della sua storia: è soprattutto per questo che lascia perplessi l’esitazione dell’amministrazione Obama nell’annunciare la scelta — prevista per lo scorso dicembre, è stata rinviata sine die — della donna che rimpiazzerà nel 2020, sulle banconote da 10 dollari, Alexander Hamilton. Il segretario al Tesoro Jack Lew ha incontrato problemi tecnici (la nuova banconota dovrà avere un innovativo sistema antifalsificazione) ma soprattutto l’ha spiazzato una serie di polemiche inattese: spiace a molti rottamare Hamilton, padre della patria (un musical a lui dedicato sta spopolando a Broadway). Perché, invece, si sono chiesti in molti, non archiviare Andrew Jackson, «titolare» della banconota da 20 dollari e moralmente indifendibile come responsabile della deportazione, nel 1830, delle tribù indiane che abitavano da migliaia di anni le regioni sudorientali? Obama sa che finirà per scontentare qualcuno — i neri se la prescelta sarà bianca, i repubblicani se scegliesse Eleanor Roosevelt, e così via. Ma davvero rinviare l’annuncio sminuisce la festa per il centenario del suffragio universale (19202020). Donald Trump, in uno dei momenti più bizzarri della sua bizzarra campagna, ha proposto di mettere sua figlia Ivanka sulle banconote. Jeb Bush in caduta libera nei sondaggi e i nervi a fior di pelle ha proposto Margaret Thatcher (che non era, ovviamente, americana). Le parole più sobrie sono venute dal candidato più a destra di tutti, Ted Cruz: «Lasciamo Hamilton dov’è, e sui venti dollari mettiamoci Rosa Parks», la donna afroamericana che nel 1955 rifiutò di lasciare il suo posto sull’autobus a un bianco e fece crollare il muro dell’apartheid americana. Obama, per una volta, dovrebbe ascoltare Cruz: farebbe la cosa più giusta. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it e scene strazianti che ci sono arrivate nei giorni scorsi da Madaya, la tristemente nota città siriana, sono state l’ennesimo promemoria delle terribili condizioni in cui versano milioni di persone intrappolate in Siria.
Non deve essere una sorpresa che in molti cerchino di scappare; in 4.6 milioni (l’intera popolazione dell’Emilia Romagna) lo hanno già fatto. Tuttavia, chi scappa ha di fronte a sé una scelta difficile: rimanere bloccato in un campo profughi con pochissimi servizi e quasi nessuna speranza per il futuro oppure tentare il viaggio disperato verso l’Europa.
Nei campi profughi, più della metà dei bambini rifugiati siriani non va a scuola: una generazione intera sta rischiando di perdere così il proprio futuro. Questa è la generazione che sarà un giorno chiamata a ricostruire la propria società, ma come potranno farlo senza le conoscenze necessarie?
Per chi sceglie di cercare una vita migliore in Europa, non vi sono dubbi sul loro diritto a farlo e che tale diritto debba essere rispettato senza condizioni. L’Europa ha i mezzi per accogliere un milione di richiedenti d’asilo, nonché un imperativo morale a farlo. Una risposta coordinata e non egoistica di tutti i Paesi membri è necessaria, se non obbligatoria.
Tuttavia, una imprenscindibile politica di accoglienza da parte dei Paesi europei deve necessariamente essere accompagnata da un progetto di soluzione diplomatica della crisi, quale soluzione a lungo termine delle condizioni che obbligano queste persone a scappare dalle proprie case. La risposta dei Paesi europei, e dell’Italia, non può dunque fermarsi ai propri confini ma deve andare oltre.
Mentre il quinto anniversario di questa guerra feroce si avvicina, la conferenza dei donatori che si svolgerà a Londra questo febbraio deve essere vista come l’apripista di un anno di attività internazionale di gestione della crisi siriana, che avrà luogo a Ginevra, Vienna, Riad come in altri luoghi. Londra servirà a stabilire il passo di questa attività: sarà l’occasione in cui il nostro governo, insieme ad altri, fisseranno le proprie ambizioni. Quanto in là siamo disposti ad andare per risolvere la crisi siriana e assicurare la sopravvivenza ai suoi abitanti?
Una soluzione diplomatica e politica deve essere vista come il punto di partenza di ogni sforzo per risolvere la crisi siriana, e di questo sarà necessario parlare anche a Londra. Allo stesso tempo è necessario trovare nuovi modi per rispondere alle necessità di quei 4.6 rifugiati fuori dalla Siria e, allo stesso tempo, correre in aiuto dei Paesi confinanti che stanno terminando le risorse a loro disposizione per far fronte all’emergenza.
C’è bisogno di un piano che permetta ai siriani di ricostruire la propria vita e che possa donare loro la speranza di avere ancora un futuro nella loro regione e nel loro Paese, di avere ancora qualcosa a cui fare ritorno. C’è bisogno di un piano che incoraggi una ripresa economica e sociale per prevenire ulteriore instabilità nella regione e che metta i rifugiati siriani nella condizione di avere un futuro.
Investire nuovi fondi umanitari è necessario, e serve a salvare vite umane, ma senza un progetto di lungo periodo non può essere abbastanza. C’è bisogno di un approccio coordinato, di un piano che rinnovi e riformuli le modalità con cui finora si è cercato di arginare una crisi che sta inghiottendo l’intera regione.
Il nostro governo prenderà parte alla conferenza di Londra e deve cogliere quest’occasione per continuare ad assistere il popolo siriano e aiutarlo a muovere i primi passi verso la ripresa.
L’Italia deve lavorare in cooperazione con gli altri Paesi presenti a Londra per sviluppare e mettere in atto un sistema di aiuti e risorse per la regione, in modo da costruire le fondamenta per un piano di sviluppo e ripresa per la Siria e i suoi vicini. Bisogna rimanere impegnati, anche nel lungo periodo, nel processo diplomatico volto a trovare una soluzione politica al conflitto. Se la soluzione politica appare lontana nel tempo, ci sono altri modi per arginare le conseguenze nefaste di questa guerra.
Non possiamo obbligare il popolo siriano ad aspettare una soluzione politica prima di poter riprendere in mano il loro destino: ovunque essi siano, dobbiamo impegnarci ad abbattere le barriere che non permettono loro di lavorare, studiare e accedere ai servizi di base nei Paesi che li stanno ospitando.
Dobbiamo fare la nostra parte e partecipare alla stesura di un progetto dettagliato che preveda investimenti per l’assistenza e la ricostruzione nel lungo periodo. Bisogna assicurarsi che questi fondi siano regolari e affidabili e che aprano la strada alla ricostruzione della Siria una volta che la guerra sarà finita.
La risposta globale alla crisi siriana non sta funzionando. Per quasi cinque anni ormai, altro non abbiamo fatto che tamponare una ferita aperta con della carta velina. La ferita sta peggiorando, con il rischio di rovinare il futuro di intere generazioni e dare inizio a decenni d’instabilità.
Il popolo siriano ha bisogno di una risposta tempestiva e coerente, e ne ha bisogno adesso. La conferenza di Londra dovrà parlare di soluzione politica, e trovare vie diplomatiche alla soluzione della crisi. Ma bisognerà anche ideare una strategia, che sia comprensiva e urgente, per mettere fine alla sofferenza umana e per cominciare, davvero, a ricostruire la Siria e i siriani.