Due padri e un lungo viaggio Così Salce è diventato adulto
Da lontano Mumble Mumble, ovvero confessioni di un orfano d’arte di Emanuele Salce (al Brancaccino di Roma) lo si può accostare alla nascita del teatro di narrazione, i monologhi di Marco Paolini, di Ascanio Celestini, di Marco Baliani o Laura Curino. Salce è tutt’affatto diverso: essenziale in quei narratori era il racconto pubblico, il racconto dei mali prodotti dalla storia nazionale.
In Salce la faccenda è radicalmente diversa, ma non perché la sua sia storia privata o perché il monologo abbia una profonda radice comica, o meglio umoristica, meglio ancora sarcastica — tale da poterlo accostare a linee di rappresentazione ancora più diverse di quelle sopra citate, poniamo Carlo Verdone in Tali e quali, o Roberto Benigni in Cioni Mario o Fiorello, showman «che non si schiera da nessuna parte». Viene in mente solo un esempio di racconto analogo al suo (poiché filosofico) ed è recente: penso a Pouilles di Amedeo Fago. La differenza tra Fago e Salce è che in Fago non vi è nulla di comico, in Salce non vi è che la dimensione ilaro-tragica. L’analogia si manifesta nell’essenziale, ossia quando si tirano le somme.
Schematicamente Mumble Mumble è un racconto in tre capitoli. Nel primo si contempla la morte del padre naturale. Il padre di Emanuele era Luciano Salce, l’autore di capolavori come Il federale o La voglia matta. Emanuele, che visse il proprio padre assai poco e per poco tempo, lo vede nell’ultima sequenza sua: una lunga lotta contro la malattia, la certezza che la lotta era diventata impari, la decisione di cedere il campo alla solitudine. Luciano comprò una barca e si allontanò in mare. È l’immagine che il figlio — prima di pronunciare la frase decisiva: «Era l’abbraccio che non ci siamo mai dati» — trattiene del padre morente. Nel secondo capitolo il figlio è sovrastato più dalla presenza che dall’assenza del nuovo padre, Vittorio Gassman.
Con la sua alta voce, come fosse in scena, egli impartiva ordini: «Vatti a lavare le mani». Anche qui risuona una frase conclusiva, un exit, è l’epitaffio che Gassman volle per la sua lapide: «Fu un attore. Non fu mai impallato» — ossia, nel linguaggio teatrale, nascosto da un altro attore, coperto da estraneo corpo. Ma a rivelare la verità di Mumble Mumble è il terzo capitolo, l’esilarante racconto di un viaggio in Australia con il fratello Jacopo ( Gassmann), il racconto del tentativo, laggiù, di intraprendere una relazione con Amanda e del semifallimento dell’impresa a causa di una dominatrice diarrea. Come non pensare al saggio di Freud del 1908 Il carattere e l’erotismo anale?
Quel bambino e poi ragazzo «abbonato a vita in prima fila», e di fatto «nato accartocciato su sé», più rivela uno spirito mimetico ascendente (e qui ci parla René Girard), più lo vediamo proteso non già nel recupero del tempo perduto e nell’analisi di tale processo come in Pouilles di Fago, più nel suo tentativo di diventare padre di se stesso egli finisce con il cadere «nel basso fondo delle cose (ora sto citando Jonathan Swift), come una linea retta spinta a formare un cerchio dalla sua stessa lunghezza».