Corriere della Sera

I ragazzi Erasmus, italiani da premio

La metà riceve un’offerta di lavoro all’estero dopo gli stage. «Ben preparati nei licei»

- di Beppe Severgnini

Si potrebbe cavarsela con il solito «nemo propheta in patria», per spiegare il successo fuori dai confini nazionali della generazion­e Erasmus. Più della metà riceve offerte di lavoro dal Paese dove è andato a completare gli studi. Merito delle nostre scuole superiori che li preparano bene. Ma anche colpa del nostro sistema che non riesce a capire il loro talento. Stiamo diventando il vivaio dei cervelli per l’Europa.

«DPreparazi­one

opo il tirocin io Erasmus+, il 51% dei ragazzi italiani riceve un’offerta di lavoro dall’impresa che l’ha ospitato. La media europea è del 30%». Sorprenden­te? Per nulla. Importante? Ovviamente. Motivo d’orgoglio? Certo. E causa d’altrettant­o imbarazzo.

Significa che, all’estero, i ragazzi italiani trovano il terreno adatto: e crescono. Vengono dalle nostre buone scuole superiori, dove s’impara; escono da università dove si studia con molti bravi docenti e si lotta con alcuni altri, sciatti ed egoisti; provengono da famiglie dove, a cena, si discute e si ragiona; arrivano da città dove secoli di genio hanno lasciato traccia, e lanciano sfide silenziose.

Il successo internazio­nale dei nostri giovani connaziona­li, quindi, non stupisce. In trent’anni di viaggi — e in quasi diciott’anni di « Italians» su Corriere.it! — ho raccolto innumerevo­li prove delle loro qualità.

I diciassett­enni che trascorron­o il quarto anno delle superiori all’estero risultano, quasi sempre, tra i migliori della classe (dovunque siano, nonostante le difficoltà poste dalla nuova lingua). Le università sono piene di giovani connaziona­li, che non hanno alcuna difficoltà a emergere, anche nelle sedi più competitiv­e. Nel mondo della ricerca accade la stessa cosa. Soprattutt­o in campo scientific­o. L’ho visto a Cambridge (UK) e a Cambridge (Massachuse­tts), in California e in Svezia, in Spagna e in Olanda. Aprite la porta di qualsiasi laboratori­o: ci troverete un computer, una pianta verde e un giovane italiano.

Alcuni Paesi — più abili o più lungimiran­ti: fate voi — hanno capito la preparazio­ne e l’elasticità mentale dei giovani italiani, e hanno cominciato a reclutarli in modo sistematic­o. Il drenaggio dei nostri medici verso la Svizzera, la Germania e in Regno Unito è evidente. Noi li formiamo

Paesi più lungimiran­ti hanno capito l’elasticità mentale dei nostri giovani

e li educhiamo, a un costo collettivo non indifferen­te. A Basilea, Bellinzona, Londra e Monaco di Baviera gli danno un lavoro: e se li tengono.

Qualcuno dirà: si chiama Europa! Vero: ma l’Europa è una rotatoria, non un senso unico. Un modo per trattenere i giovani italiani e attirare i giovani stranieri esiste, ovviamente. Basta coinvolger­li, e smettere di pensare che occorra avere 40 anni per proporre cose sensate. Basta retribuirl­i adeguatame­nte, quando le proposte diventano un lavoro (medici e ingegneri guadagnano il 30% in meno rispetto alla Germania). Basta gratificar­li, assegnando ruoli, gradi e qualifiche opportune. Il «sentimento italiano senza nome» di cui parlava Goffredo Parise — la trama sensuale e imprevedib­ile della nostra vita quotidiana — farà il resto.

Diciamolo: è ora di cambiare. Da anni l’Italia s’è inventata un nuovo, masochisti­co sport: il salto triplo generazion­ale. I nostri ragazzi lasciano il sud, rimbalzano a Milano o a Torino e finiscono sparsi per l’Europa. Oppure partono da Piemonte, Lombardia e Veneto e finiscono prima a Londra poi negli Usa o in Asia. Molti non torneranno. Li abbiamo educati e delusi: ci meritiamo quanto è accaduto. Ma non è tardi per rimediare. Ripetiamol­o: basta apprezzarl­i, motivarli, pagarli. E tenerli al riparo dalle patetiche astuzie che segnano la nostra vita collettiva. A quaranta o a sessant’anni un italiano, ormai, certe cose le sopporta. A venticinqu­e no: e fa bene.

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