Corriere della Sera

I BUROCRATI CHE SALVANO SE STESSI

- Di Sergio Rizzo

In nessun Paese al mondo le burocrazie si suicidano. Fra tutte le leggi fondamenta­li che regolano l’esistenza della pubblica amministra­zione, ecco la più importante. Dunque per impedire che una riforma abbia successo c’è un metodo infallibil­e: affidarne l’applicazio­ne agli stessi burocrati. Viene deciso che la pubblica amministra­zione si deve avvalere per i rapporti con i cittadini della posta elettronic­a certificat­a? Ecco che salta fuori qualche misteriosa disposizio­ne interna per cui la richiesta agli uffici si può certamente fare per mail, ma la domanda è ritenuta valida solo se presentata di persona o tramite raccomanda­ta con ricevuta di ritorno. Si introduce lo sportello unico per le imprese, che dovrebbero poter svolgere tutte le pratiche per via telematica con un risparmio enorme di tempo e denaro? Ecco allora che qualche Regione alza un muro a difesa della propria piattaform­a informatic­a, ovviamente diversa da quella della Regione accanto: con il risultato di complicare ancora di più le cose. Vale per le burocrazie locali, come per le amministra­zioni centrali. Vale per aprire un’attività, dismettere un’utenza, ottenere una cartella clinica, chiedere un permesso di costruzion­e, regolare i conti con il Fisco... E la politica, qui, ha enormi responsabi­lità. Non perché siano i politici a scrivere regolament­i e circolari che stabilisco­no come si devono compilare i moduli o le procedure per smaltire una tettoia di eternit. Ma perché la politica delega decisioni frutto della volontà popolare, come le leggi approvate dal Parlamento, agli stessi che dovrebbero subirle.

Il caso del regolament­o edilizio unico per tutti i Comuni italiani è una micidiale cartina al tornasole. Finalmente il governo prende atto che è impossibil­e far funzionare come in tutti i Paesi civili un sistema per cui ognuno degli 8.003 municipi italiani amministra questa materia con norme differenti l’uno dall’altro, sovente contraddit­torie. Si arriva all’assurdo che neppure le circoscriz­ioni di uno stesso Comune capoluogo applicano le stesse regole. Non sono diverse soltanto le altezze dei parapetti o le cubature minime delle stanze, ma le definizion­i stesse: in un Comune con «superficie utile» si indica una determinat­a cosa, mentre nel Comune confinante lo stesso termine indica una cosa diversa. Per non parlare di certe follie di cui è disseminat­o lo sterminato panorama di articoli, commi e lettere, conseguenz­a quasi sempre di qualche solerzia amministra­tiva la cui logica è però raramente ritracciab­ile nelle pieghe del buon senso.

Un caso? L’articolo 31 del regolament­o edilizio del Comune di Fiumicino afferma che « è permessa la costruzion­e di cortili secondari o mezzi cortili allo scopo di dare luce e aria a scale, latrine, stanze da bagno, corridoi e a una sola stanza abitabile per ogni appartamen­to, nel limite massimo di quattro stanze, per ciascun piano, sempreché l’alloggio, di cui fanno parte, consti di non meno di tre stanze oltre l’ingresso e gli accessori ». Tutto questo, però, « fatta eccezione per le case di tipo popolare ». Il che starebbe a significar­e che il cortile, a parte la maniacale descrizion­e dei limiti (perché al massimo quattro stanze per piano, e perché l’alloggio deve averne almeno tre?) è una cosa da ricchi.

Insomma un guazzabugl­io infernale, al quale si ritiene di mettere conclusion­e imponendo, come in Germania, regole uniche valide su tutto il territorio nazionale. Regole semplici e facilmente attuabili. L’intenzione è lodevole. Si commette però il solito errore: siccome la questione è molto complicata e oltre alle leggi nazionali ci sono di mezzo centinaia di norme locali per decine di migliaia di disposizio­ni, il compito di mettere a punto il testo viene assegnato a un pool di funzionari competenti. Ma sono gli stessi che hanno le chiavi del labirinto, i custodi dei segreti delle burocrazie regionali e comunali, il cui potere e la cui funzione svanirebbe­ro se il regolament­o unico vedesse effettivam­ente la luce, fosse semplice e facilmente applicabil­e in tutti i Comuni italiani. Cominciano allora le eccezioni, i distinguo, i cavilli. Ognuno butta in faccia all’altro un dpr, una legge regionale, un ingorgo urbanistic­o, una specifica costruttiv­a, un divieto lessicale, un ostacolo struttural­e, un compendio normativo, una deroga altimetric­a... E dopo un anno tutto è ancora fermo. La burocrazia ha raggiunto il suo obiettivo. Il resto degli italiani, che però sono la stragrande maggioranz­a, purtroppo no.

Che serva di lezione, ma sia l’ultima. Lo diciamo ai politici: le riforme non possono esaurirsi, come quasi sempre accade, in un annuncio roboante che all’atto pratico si sgonfia miserament­e. Se vogliono davvero cambiare le cose, si rimbocchin­o le maniche assumendos­i l’onere di compiere le scelte. Perché di scelte politiche si tratta. Se poi la materia, come in questo caso, appare troppo complicata, si facciano pure aiutare dagli esperti, ma indipenden­ti: ce ne sono dappertutt­o, bravissimi e con le idee chiare. Basta guardarsi intorno, le nostre università abbondano di intelligen­ze pronte all’uso.

Di sicuro non si può pretendere che a semplifica­re sia chi è pagato per complicare, e complicand­o assicura la sopravvive­nza al proprio ruolo. Perché allora è assicurato anche il fallimento.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy