I BUROCRATI CHE SALVANO SE STESSI
In nessun Paese al mondo le burocrazie si suicidano. Fra tutte le leggi fondamentali che regolano l’esistenza della pubblica amministrazione, ecco la più importante. Dunque per impedire che una riforma abbia successo c’è un metodo infallibile: affidarne l’applicazione agli stessi burocrati. Viene deciso che la pubblica amministrazione si deve avvalere per i rapporti con i cittadini della posta elettronica certificata? Ecco che salta fuori qualche misteriosa disposizione interna per cui la richiesta agli uffici si può certamente fare per mail, ma la domanda è ritenuta valida solo se presentata di persona o tramite raccomandata con ricevuta di ritorno. Si introduce lo sportello unico per le imprese, che dovrebbero poter svolgere tutte le pratiche per via telematica con un risparmio enorme di tempo e denaro? Ecco allora che qualche Regione alza un muro a difesa della propria piattaforma informatica, ovviamente diversa da quella della Regione accanto: con il risultato di complicare ancora di più le cose. Vale per le burocrazie locali, come per le amministrazioni centrali. Vale per aprire un’attività, dismettere un’utenza, ottenere una cartella clinica, chiedere un permesso di costruzione, regolare i conti con il Fisco... E la politica, qui, ha enormi responsabilità. Non perché siano i politici a scrivere regolamenti e circolari che stabiliscono come si devono compilare i moduli o le procedure per smaltire una tettoia di eternit. Ma perché la politica delega decisioni frutto della volontà popolare, come le leggi approvate dal Parlamento, agli stessi che dovrebbero subirle.
Il caso del regolamento edilizio unico per tutti i Comuni italiani è una micidiale cartina al tornasole. Finalmente il governo prende atto che è impossibile far funzionare come in tutti i Paesi civili un sistema per cui ognuno degli 8.003 municipi italiani amministra questa materia con norme differenti l’uno dall’altro, sovente contraddittorie. Si arriva all’assurdo che neppure le circoscrizioni di uno stesso Comune capoluogo applicano le stesse regole. Non sono diverse soltanto le altezze dei parapetti o le cubature minime delle stanze, ma le definizioni stesse: in un Comune con «superficie utile» si indica una determinata cosa, mentre nel Comune confinante lo stesso termine indica una cosa diversa. Per non parlare di certe follie di cui è disseminato lo sterminato panorama di articoli, commi e lettere, conseguenza quasi sempre di qualche solerzia amministrativa la cui logica è però raramente ritracciabile nelle pieghe del buon senso.
Un caso? L’articolo 31 del regolamento edilizio del Comune di Fiumicino afferma che « è permessa la costruzione di cortili secondari o mezzi cortili allo scopo di dare luce e aria a scale, latrine, stanze da bagno, corridoi e a una sola stanza abitabile per ogni appartamento, nel limite massimo di quattro stanze, per ciascun piano, sempreché l’alloggio, di cui fanno parte, consti di non meno di tre stanze oltre l’ingresso e gli accessori ». Tutto questo, però, « fatta eccezione per le case di tipo popolare ». Il che starebbe a significare che il cortile, a parte la maniacale descrizione dei limiti (perché al massimo quattro stanze per piano, e perché l’alloggio deve averne almeno tre?) è una cosa da ricchi.
Insomma un guazzabuglio infernale, al quale si ritiene di mettere conclusione imponendo, come in Germania, regole uniche valide su tutto il territorio nazionale. Regole semplici e facilmente attuabili. L’intenzione è lodevole. Si commette però il solito errore: siccome la questione è molto complicata e oltre alle leggi nazionali ci sono di mezzo centinaia di norme locali per decine di migliaia di disposizioni, il compito di mettere a punto il testo viene assegnato a un pool di funzionari competenti. Ma sono gli stessi che hanno le chiavi del labirinto, i custodi dei segreti delle burocrazie regionali e comunali, il cui potere e la cui funzione svanirebbero se il regolamento unico vedesse effettivamente la luce, fosse semplice e facilmente applicabile in tutti i Comuni italiani. Cominciano allora le eccezioni, i distinguo, i cavilli. Ognuno butta in faccia all’altro un dpr, una legge regionale, un ingorgo urbanistico, una specifica costruttiva, un divieto lessicale, un ostacolo strutturale, un compendio normativo, una deroga altimetrica... E dopo un anno tutto è ancora fermo. La burocrazia ha raggiunto il suo obiettivo. Il resto degli italiani, che però sono la stragrande maggioranza, purtroppo no.
Che serva di lezione, ma sia l’ultima. Lo diciamo ai politici: le riforme non possono esaurirsi, come quasi sempre accade, in un annuncio roboante che all’atto pratico si sgonfia miseramente. Se vogliono davvero cambiare le cose, si rimbocchino le maniche assumendosi l’onere di compiere le scelte. Perché di scelte politiche si tratta. Se poi la materia, come in questo caso, appare troppo complicata, si facciano pure aiutare dagli esperti, ma indipendenti: ce ne sono dappertutto, bravissimi e con le idee chiare. Basta guardarsi intorno, le nostre università abbondano di intelligenze pronte all’uso.
Di sicuro non si può pretendere che a semplificare sia chi è pagato per complicare, e complicando assicura la sopravvivenza al proprio ruolo. Perché allora è assicurato anche il fallimento.