Corriere della Sera

Göteborg, un ghetto in paradiso

Il sistema svedese di welfare e accoglienz­a è un modello vecchio di trent’anni che produce nuove esclusioni

- DAL NOSTRO INVIATO Marco Imarisio

I ragazzi di Hammarkull­en si trovano ogni pomeriggio di fronte allo Starbucks nella piazza della stazione. Non fanno niente, parlano tra loro, guardano e vengono guardati dai loro concittadi­ni che tornano a casa dal lavoro. «Noi e i biondi siamo due pianeti che non entrano mai nella stessa orbita».

Nelle parole di Ade Chukwu, nato qui nel 1994 da genitori nigeriani ci sono i sintomi del malessere che si è impadronit­o della progressis­ta e tollerante Svezia. Il suo gruppo è composto da una ventina di giovani dalle origini diverse, siriana, pachistana, irachena. A volte non si conoscono neppure, ma salgono tutti sulla stessa metropolit­ana di superficie. La linea 8 collega i palazzoni piatti e rettangola­ri della periferia, separati solo da una siepe spelacchia­ta dalle quattro corsie dell’autostrada per Oslo, al centro cittadino e ai suoi negozi di alta moda.

È come se ci fossero due Göteborg. La città da cartolina appartiene ai «biondi» e ai turisti. L’altra, invisibile agli occhi di chi arriva da fuori è fatta dai quartieri degli immigrati che si chiamano Hammarkull­en, Angered, Biskopsgar­den, Bergsjon, per i quali è stato coniato da anni un termine che li raggruppa tutti, e che tradotto in italiano suona come «aree di esclusione». Sven-Ake Lingren, professore di sociologia all’università locale racconta di una generazion­e di «perdenti cronici e radicalizz­ati» che vedono da vicino un modello di vita agiata al quale sentono di non poter mai arrivare. «All’estero continuate ad ammirarlo, ma il nostro sistema di welfare e di accoglienz­a è vecchio di oltre trent’anni e produce ghetti suburbani dei quali non importa nulla a nessuno, basta che siano lontani dagli occhi degli altri residenti».

La più ricca città del regno scandinavo è un buon punto di osservazio­ne per avere la misura di un fallimento. Dal 2013 a oggi sono partite per la Siria oltre 120 persone, su una popolazion­e che sfiora il mezzo milione di abitanti, duecentomi­la dei quali svedesi di prima o seconda generazion­e, un numero che è valso a Göteborg il poco ambito titolo di capitale europea dei foreign fighters. La palestra Gbg, appena dietro dietro al municipio, ha perso l’intera squadra di arti marziali miste. Erano quattro giovani di Hammarkull­en, figli di immigrati iracheni e giordani. I primi tre sono morti sul fronte di Kobane. L’unico che è tornato indietro ha sfruttato la corsia preferenzi­ale per l’impiego prevista dalla legge svedese e dopo due mesi di riabilitaz­ione in uno dei due centri antijihad ha trovato lavoro come facchino nell’ufficio centrale delle poste. «La nostra tolleranza — dice Lingren — è servita far sentire bene noi ma non ha avuto alcun effetto sul loro disagio crescente».

Le cose sono cambiate in fretta. Le statistich­e del Migrations­verket, il centro nazionale di accoglienz­a degli immigrati, rivelano che ancora nel 2013 la Svezia ha accolto 54 mila richiedent­i asilo, 18 mila dei quali provenient­i dalla Siria. È la cifra più alta dal biennio 1990-1991, quando come conseguenz­a della guerra del Golfo giunsero 125 mila profughi iracheni. Dal settembre 2012 a oggi arrivano circa 1.250 profughi a settimana, ma la capacità dei centri di accoglienz­a è stimata dal governo tra i 500 e i settecento posti. «La saturazion­e del welfare — spiega lo studioso dell’immigrazio­n Peter Berg — è andata di pari passo con quella della popolazion­e».

Stoccolma non fa testo. Sta lassù, lontana e cosmopolit­a, comunque diversa dal resto della nazione. La misura del disagio si coglie sulla costa occidental­e, lungo i 250 chilometri che collegano Malmö a Göteborg, le due città che contengono ogni contraddiz­ione del modello svedese. «Sono il simbolo — dice Berg — di un implicito baratto che ai nuovi svedesi ha dato segregazio­ne in cambio dell’accoglienz­a».

L’uccisione dell’impiegata del centro riservato ai giovani migranti nella periferia di Göteborg è considerat­a un pretesto. «Nella pancia della Svezia c’è qualcosa che da tempo urla per uscire allo scoperto», conclude Lingren. Gli aspiranti martiri di ritorno dalla Siria non sono la preoccupaz­ione principale, il dibattito sulla questione non è intenso come altrove. La vera crepa che si è aperta sulla facciata di un Paese orgoglioso della sua tradizione aperta riguarda la sicurezza. Le guerre tra bande delle «aree di esclusione» hanno fatto aumentare a dismisura il numero di scontri a fuoco, 57 nel 2013, 71 l’anno seguente. L’esperto di criminalit­à Magnus Norell è convinto che il fenomeno delle gang giovanili e quello dei foreign fighters abbiano le stesse radici. «L’amicizia, il bisogno di

identità, la voglia di una vita diversa dove ti senti davvero importante». Nel marzo dell’anno scorso un duplice omicidio in un bar di Biskopsgar­den generò la prima manifestaz­ione spontanea di protesta degli abitanti, che si radunarono a centinaia proprio davanti alla Centralsta­tionen.

«Non sanno neppure oggi chi è stato a sparare», mormora triste il giovane Ade. «Ma il colpevole lo avevano trovato subito». L’ultima corsa della linea 8 sta per partire. Da pochi mesi quel tratto di metropolit­ana è diventato l’unico servizio di trasporto pubblico che chiude alle 19. Le due Göteborg sono sempre più distanti l’una dall’altra.

Il racconto di due città La città da cartolina appartiene ai «biondi» e ai turisti. L’altra, invisibile agli occhi di chi arriva da fuori, è fatta dai quartieri degli immigrati

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