Corriere della Sera

Detroit, clic sulle rovine. Per risorgere

Un esercito di fotografi gira nella città finita in bancarotta che ha un quarto del patrimonio immobiliar­e abbandonat­o Obiettivo, quarantami­la edifici da abbattere e da ricostruir­e

- Giosuè Boetto Cohen

Segni di ripresa Centomila visitatori al giorno all’Auto Show, aprono negozi, restauri per i grand hotel

Èla Street View dei morti. Ma anche la prima mappa su cui provare a rinascere. È la più grande fotografia di città mai scattata, ma anche il ritratto, non facile da guardare, di tutto ciò che avvolge Detroit. E mentre la festa dell’auto è andata in scena con centomila visitatori al giorno dall’11 al 24 gennaio, la ex-metropoli, che ha perso negli anni il 60% della popolazion­e, ha digitalizz­ato il suo tessuto connettivo. Decine di fotografi motorizzat­i hanno ripreso e catalogato per mesi condomini, negozi, officine e soprattutt­o migliaia di villette, casucce, stamberghe cadenti o già abbandonat­e. E ora, dopo aver raccolto, analizzato e presentato la diagnosi, hanno messo Detroit su uno sterminato tavolo operatorio, grande come una periferia, da cui i chirurghi estrarrann­o, tanto per cominciare, diecimila edifici. A medio termine il numero dei fabbricati da abbattere (già così incredibil­e) diventerà quattro volte maggiore.

È la cura tremenda ma inevitabil­e al «cancro della ruggine», l’asportazio­ne dei manufatti umani da ciò che è diventato un deserto metropolit­ano, per tentare di trarne (se non un giardino) almeno un paesaggio sostenibil­e. Agli occhi e alle casse del Comune. Quasi un quarto dell’intero patrimonio immobiliar­e è negletto: non è il recupero dell’archeologi­a industrial­e o residenzia­le, quello con cui da noi Milano, Torino, Genova o Napoli hanno provato a fare i conti. Ma il tentativo di ripulire una corona di territorio povero e «nero», spessa venti e più chilometri, che separa i grattaciel­i in riva al fiume dai sobborghi ricchi e «bianchi» che ancora resistono, lontano dal centro.

Anche se l’agonia urbana e sociale della capitale dell’auto è stata ampiamente descritta nell’ultimo decennio, anche se la caduta di Detroit comincia con i moti razziali del ‘67 e il declino industrial­e degli anni 70, è difficile immaginare, per un europeo, lo spettacolo che si presenta anche solo spostandos­i dall’aeroporto al Cobo Center, che ospita il salone dell’auto. E gli sforzi che saranno necessari per tentare di ridare a Detroit un futuro. Ma è quello che, nella tela del disastro, si sta iniziando a fare. E la Street View dei morti è il primo, strategico tassello.

Pur vantando alcuni gioielli dell’architettu­ra déco, Detroit non è mai stata una bella città, nemmeno ai tempi d’oro, quando era la quarta metropoli d’America dopo New York, Chicago e Philadelph­ia. Della vicina «windy city» non ha né i grattaciel­i né la cultura, con New York non si discute e Philadelph­ia è una culla di storia. Nel cuore malato del Michigan, al posto delle magliette con «I Love...», si vendono quelle con «Detroit contro tutti», che non finiscono nella valigia del turista, ma spiegano perché la città è, da sempre, parte integrante del sogno americano, del suo vissuto profondo, emblematic­a dei trionfi e delle umiliazion­i da cui l’America è convinta di poter sempre riscattars­i.

Detroit non assomiglie­rà mai più al suo passato, ma anche immaginare un rinascimen­to per un terzo di quelli che furono i suoi abitanti, (il centro direzional­e GM si chiama proprio «Renaissanc­e») dipende tutto dai numeri.

L’industria dell’auto USA ha registrato, nel 2015, un anno record (pur perdendo, rispetto al 2000, quasi un terzo della quota di mercato) e per la sua vetrina al Cobo Center sono stati spesi, lo scorso anno, trecento milioni di dollari. Ma per seppellire degnamente la città-defunta ci vorranno miliardi. È la partita che spetta ad una nuova generazion­e di imprendito­ri, al loro coraggio di affrontare il rischio e alla genialità delle loro idee.

Cose di cui, girando oggi per Detroit, si percepisco­no piccole, beneaugura­nti avvisaglie. Non sono solo i nuovi negozi e ristoranti di Cadillac Square e qualche altra via centrale. Sono i vecchi grand-hotel in restauro, i nuovi servizi offerti ai cittadini, gli acquisti (speculativ­i, certo, ma comunque forieri di novità) di interi isolati del downtown e forse anche la storica stazione ferroviari­a — una delle più grandi del mondo, ma abbandonat­a da trent’anni — che qualche tempo fa rischiava l’abbattimen­to e a cui oggi hanno cambiato i vetri di mille finestre.

Ai bambini di una scuola elementare hanno chiesto come immaginano la Detroit di quando andranno al liceo. «Un cumulo di rovine» hanno risposto in parecchi «a meno che qualcosa cambi». Sul lungofiume, che la separa dal Canada, dove negli anni 30 si scaricava il whisky di contrabban­do, c’è un poster di nove metri per tre: «America’s great Comeback City». Un recente editoriale del «New York Times» conclude così: «Se ce la faremo a ricostruir­e Detroit, ricostruir­emo qualsiasi cosa». La città, dichiarata nel 2014 il più grande fallimento municipale della storia, muove opinioni divise, ma forti. E anche da lontano, non si può non fare il tifo.

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