L’
In assenza di risultati elettorali stabili bisogna fare di necessità legislativa virtù
appoggio determinante dato in Senato da Verdini e dal suo gruppo di transfughi alla approvazione della riforma costituzionale ha portato molti commentatori a sottolineare il marcato riemergere nella nostra vita istituzionale dell’antico malanno del trasformismo, e a parlare di un passo decisivo verso la nascita del «Partito della nazione». L’affermazione di Verdini che il suo movimento avrebbe affiancato il Pd nelle future elezioni ha inoltre rafforzato la tesi che ci si stia incamminando verso un progressivo mutamento della maggioranza politica. Le cose non stanno così: che un Partito della nazione — se mai nascerà — sia una versione aggiornata di un partito «pigliatutto» a baricentro centrista è difficilmente controvertibile. Ed è egualmente incontrovertibile che il gruppo di Verdini, formato da parlamentari eletti soprattutto nel Sud d’Italia, sia l’ennesimo episodio del più vieto trasformismo parlamentare. Ma esso non anticipa necessariamente alcun cambiamento di maggioranza politica, limitandosi semmai a documentare il vero tratto del governo Renzi: l’essere, malgrado la maggioranza assoluta assicurata alla Camera al Pd dal Porcellum, un governo a maggioranze variabili.
Vi è un metodo per giudicare se un governo gode di una propria stabile maggioranza o deve ricercare in Parlamento sostegni diversi e mutevoli: la congruenza tra la maggioranza che si esprime nei voti di fiducia, e quella su provvedimenti qualificanti dell’indirizzo politico quali le riforme costituzionali ed elettorali, la giustizia, i diritti civili, o provvedimenti quali la politica fiscale e previdenziale, o della scuola e della ricerca scientifica che dovrebbero avere continuità e travalicare la durata di un singolo governo. Se questo è il metodo, le prove che il governo Renzi sia a maggioranze variabili non mancano: la maggioranza politica è costituita da Pd e dai centristi di Ncd e Udc, ma già per eleggere il capo dello Stato e i membri della Corte costituzionale e del Csm è dovuta ricorrere al M5S. E analogamente, sulle unioni civili una maggioranza — se mai ci sarà — sarà formata con i voti determinanti non solo dei Grillini, ma anche di Sel e Verdini. Il Jobs act è invece passato senza Sel e i dissidenti del Pd con il sostegno di Forza Italia. La necessità di non moltiplicare i casi in cui maggioranza politica e maggioranze legislative non coincidono, e il mancato appoggio di Area popolare, hanno infine rallentato il cammino delle riforme della Giustizia e della Amministrazione. Il quadro complessivo è così quello di
RENZI E L’EUROPA
un governo limitato dalla propria maggioranza politica e dalle divisioni interne al Pd nell’adozione di molte politiche pubbliche, e che solo l’abilità negoziale del Premier e il trasformismo di molti parlamentari permette di superare. Paradossalmente, proprio lo scandaloso trasformismo esploso nelle ultime due legislature può facilitare l’adozione di politiche necessarie al Paese. Ex male bonum direbbe un inguaribile ottimista.
Il ricorso a maggioranze variabili non deve dunque sorprendere, e non deve essere considerato un male della democrazia. Laddove i risultati elettorali non consentono coese maggioranze, i regimi democratici hanno infatti conosciuto grandi coalizioni o governi a maggioranze variabili. Anche se questi ultimi richiedono notevoli capacità di leadership, e la presenza di un forte partito come stabile nucleo delle maggioranze variabili, non mancano esempi che ne attestano un buon livello di funzionalità. Si pensi ad esempio a sistemi presidenziali come gli Usa, o semipresidenziali come la Francia prima dell’ultima riforma elettorale, ove ad un Presidente eletto a termine fanno riscontro parlamenti eletti in un diverso momento e quindi spesso di diverso colore politico: in tali situazioni il capo dell’esecutivo deve costruirsi una maggioranza parlamentare che varierà al variare delle decisioni politiche da affrontare, a riprova che persino nei sistemi presidenziali quando i parlamenti siano liberamente eletti e non nominati la ricerca di un efficace decision-making può imporre il ricorso a maggioranze variabili. Se così è, non deve destare meraviglia che in Italia il governo Renzi sia largamente ricorso a questa pratica.
A chi, come molti tra noi, abbia conosciuto una politica caratterizzata da partiti forti e strutturati un governo fondato su maggioranze variabili o su grandi coalizioni può apparire una distorsione della democrazia. Ma in Paesi a forte frammentazione, ove le elezioni non producano solide e stabili maggioranze malgrado leggi elettorali fortemente maggioritarie (come ora in Spagna), ove cioè l’alternativa sia tra la debolezza e l’instabilità delle coalizioni di governo e forzature maggioritarie oltre ogni ragionevole limite, il ricorso a grandi coalizioni, o ancor meglio a governi a maggioranze variabili, è sicuramente preferibile, e meno distorsivo di una corretta rappresentanza politica, di sistemi ove la governabilità sia raggiunta facendo saltare pesi e contrappesi e solo al prezzo di abnormi premi di maggioranza dati a partiti comunque minoritari.
A mali estremi, estremi rimedi, si dirà. Ma in assenza di risultati elettorali che consentano stabili maggioranze, piuttosto che ricorrere a eccessive manipolazioni delle leggi elettorali meglio ricercare maggioranze variabili, o come ultima ratio, accordi di grande coalizione. Le regole auree della democrazia che vogliono che si governi secondo il principio di maggioranza, ma che impongono anche che non si alteri troppo il principio dell’one man — one vote, verrebbero rispettate.
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