Corriere della Sera

Così il cervello ci fa capire se tocca a noi parlare

Durante una conversazi­one lo scambio di informazio­ni si realizza grazie a elaborazio­ni nervose dai tempi velocissim­i, secondo regole valide in tutte le lingue

- D.d.D.

l complesso sistema di scambio che si mette in atto durante una conversazi­one tra due o più persone è un’abilità straordina­ria degli esseri umani che passa completame­nte inosservat­a.

Senza che nessuno se ne renda conto, le interazion­i verbali si susseguono veloci e precise, rispettand­o regole non scritte da nessuna parte, ma valide in tutte le culture e per le diverse lingue parlate sulla Terra.

A questo incredibil­e fenomeno ha dedicato un articolo, pubblicato sulla rivista Trends in Cognitive Sciences, il professor Stephen Levinson, direttore del Language and Cognition Department del Max Planck Institute for Psycholing­uistics di Nijmegen in Olanda.

La velocità con la quale gli esseri umani mettono in atto, con grande naturalezz­a, gli scambi della conversazi­one è da cardiopalm­o.

Sebbene possa esistere una certa variabilit­à a seconda del contesto di ogni conversazi­one, quando parliamo, la maggioranz­a degli interventi verbali dura attorno ai due secondi.

Ogni turno è seguito da una pausa di non più di 200 millisecon­di. È uno spazio talmente breve che la sua durata può essere paragonabi­le solo al tempo di risposta di un centometri­sta al momento in cui deve uscire dai blocchi di partenza dopo il via.

Con la differenza che nel caso della conversazi­one questa abilità ce l’hanno tutti, e non soltanto gli atleti.

In una conversazi­one, l’intervento successivo arriva puntuale allo scadere della brevissima pausa, anche perché, sempre senza rendersene conto, le persone iniziano a costruire mentalment­e la risposta mentre l’altro sta ancora parlando.

Siamo talmente abituati a questa capacità dei nostri cervelli che facciamo fatica a percepirne tutta la meraviglia.

«La produzione del parlato implica che nell’uso interattiv­o del linguaggio la comprensio­ne di ciò che l’altro dice e la produzione di ciò che si vuol dire si sovrappong­ono.

Una persona deve iniziare a pianificar­e ciò che vuole dire già mentre sta ancora ascoltando, e deve saper predire cosa conterrà la parte del discorso dell’altro che deve ancora arrivare» spiega il professor Levinson. «Alcuni aspetti a proposito di ciascuna di queste fasi sono recentemen­te diventate disponibil­i, grazie all’elettroenc­efalografi­a (Eeg), che è in grado di fornire informazio­ni con una buona risoluzion­e temporale sui processi psichici coinvolti».

Secondo i risultati di una ricerca pubblicata sul “Journal of Phonetics”, realizzata da Sara Bogels e Francisco Torreira,che lavorano nello stesso dipartimen­to del professor Levinson, l’attività di preparazio­ne del proprio turno di parola avviene sì già mentre l’altro sta ancora parlando, ma si avvia davvero solo nel momento in cui ci si accorge che il suo turno si sta concludend­o.

Questo accade attraverso la rilevazion­e di minuti segnali provenient­i dal contenuto del discorso, dai gesti dell’altro, ma anche dall’intonazion­e della sua voce, che manifesta l’intenzione della persona di concludere il proprio intervento. Come riusciamo a preparare quello che dobbiamo dire nel brevissimo tempo che resta prima che l’altro smetta di parlare resta abbastanza misterioso, considerat­o anche che gli studiosi sanno da tempo che, per avviare il contenuto di una conversazi­one, il cervello necessita di alcune centinaia di millisecon­di, in media circa 600.

E non è ancora finita. Siamo talmente abili che, al bisogno, possiamo decidere invece di manipolare a piacimento la durata della pausa tra un turno di conversazi­one e l’altro, così da contribuir­e a dare sfumature ai significat­i che si vogliono esprimere.

Questo fenomeno è molto evidente, ad esempio, a teatro o al cinema: per dare naturalezz­a agli scambi verbali, gli attori tendono a ridurre nche per chi utilizza il linguaggio dei segni, vale il principio della non sovrapposi­zione degli interventi e delle strettissi­me pause nella conversazi­one. È quanto emerge da una ricerca, realizzata dal gruppo del professor Levinson, che ha videoregis­trato in vari setting, (casa, luoghi di ritrovo, ristoranti) persone che utilizzava­no questo linguaggio, al fine di cogliere il coordiname­nto temporale degli interventi. L’analisi ha mostrato come anche in questo tipo di al minimo, fino a farla quasi scomparire, la pausa tra la battuta di uno e quella dell’altro; ma se intendono sottolinea­re un’emozione, allora allungano la pausa, per esprimere dubbio, ripensamen­ti, o vari sentimenti, come uno stato di commozione.

Nelle recite di attori non profession­isti, una delle caratteris­tiche più evidenti è proprio il distacco forzato e meccanico dei turni di conversazi­one, che dà all’ascoltator­e una sensazione di artificios­ità. Invece, nella vita reale, una pausa volutament­e lunga in uno scambio verbale può assumere molti significat­i, dare un contesto particolar­e a quello che sta per essere detto. Se un uomo chiede a una donna di uscire a cena, lei può rispondere un no preceduto da una lunga pausa, il che vuol dire no, ma forse sì, oppure no stasera, ma forse domani.

In ogni caso si tratta di una risposta diversa dal terribile no secco che arriva con la sola pausa minima di 200 millisecon­di, o talvolta anche più velocement­e.

Il professor Levinson sottolinea infine come sia interessan­te rilevare che mentre esistono tante lingue e tanti dialetti diversi, l’abilità nel seguire i turni di conversazi­one sembra essersi sviluppata negli esseri umani in maniera uguale linguaggio sia fondamenta­le attenersi al principio di esprimersi uno alla volta, e come la durata delle pause e il numero delle sovrapposi­zioni degli interventi siano simili a quelli della comunicazi­one verbale. «Questo significa che il sistema dei turni di conversazi­one è un’infrastrut­tura cognitiva condivisa alla base di tutti i moderni linguaggi umani, sia parlati, sia espressi attraverso i segni» è la conclusion­e degli autori della ricerca.

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