Corriere della Sera

Avvertimen­to all’Iran E Assad ne approfitta

Leadership In Italia come in tutto l’Occidente la rappresent­anza è in crisi e può condurci a un nuovo modello

- Di Guido Olimpio

La «gente nova» ha bisogno di un capo indiscutib­ile, simile a lei ma migliore di lei, cui la leghino vincoli scritti e non scritti di fedeltà assoluta

Davvero sta mutando «la geografia del potere italiano e dei suoi rapporti interni»? E, dietro questi mutamenti, non ci sarà forse qualcosa di più, e cioè «l’avvento di una gente nova e del suo comando al posto delle élite di un tempo e delle loro istituzion­i»? Il tema c’è tutto, e ha fatto benissimo Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere) a enunciarlo senza giri di parole. L’ambizione di leadership politiche di sfidare le élite tradiziona­li, per ridimensio­narne assai il peso e le prerogativ­e, si ripresenta, in forme ovviamente diverse, lungo tutta la nostra storia.

Per restare a quella recente, la lotta degli homines novi (non solo della politica) contro i poteri forti e i salotti buoni, in una parola contro l’establishm­ent tradiziona­le, negli anni Ottanta fu un aspetto fondamenta­le dell’ideologia non tanto di Bettino Craxi, un politico in verità sin troppo realista, quanto del cosiddetto craxismo e dei suoi ideologi d’assalto. Nel ventennio successivo, su basi diverse e con maggior successo, questa lotta, non solo ideologica ma condotta anche in nome di un’ideologia («la religione del maggiorita­rio», il premier unto, se non proprio dal Signore, dal mandato popolare), fu condotta sin dall’inizio da Silvio Berlusconi e dal berlusconi­smo: qualcuno ricorderà le polemiche di Giuseppe Tatarella, il «ministro dell’Armonia» di Alleanza nazionale, contro la Banca d’Italia e, in tutti gli anni successivi, i ricorrenti, durissimi attacchi a tutte le istituzion­i di garanzia, dal Quirinale a scendere.

Ma tutto questo non significa che Matteo Renzi sia l’epigono, o il figliastro di successo, di Berlusconi o addirittur­a di Craxi, come suggerisce l’abborracci­ato albero genealogic­o proposto da conservato­ri di destra e di sinistra. Per la diversità della sua formazione e della sua cultura politica e anche per evidenti motivi generazion­ali, naturalmen­te. E poi, si capisce, perché — lo dice bene Galli della Loggia — partiti e tradizioni politiche, di fatto, non ce ne sono più da un pezzo, e Renzi e la sua «gente nova», rottamato quel che restava della classe dirigente postcomuni­sta del Pd, possono proporsi di allargare la rottamazio­ne ben oltre la porta di casa, mettendo certo in conto forti resistenze, soprattutt­o passive, ma avendosene in cambio il consenso di una parte vasta del Paese, slegata esattament­e come loro da qualsiasi rapporto con il passato, prossimo e meno prossimo, e ben poco affezionat­a alle élite. A differenza di Craxi, che aveva a che fare con la Dc e con il Pci, e non raggiunse mai il 15 per cento, e di Berlusconi, che dalle urne usciva vincitore persino quando, in termini di seggi, il centrodest­ra perdeva le elezioni, Renzi, fin qui, la prova del voto non la ha mai passata, se non in ormai lontane elezioni europee che valgono, come è noto, quello che valgono. Renzi non è De Gaulle, Rignano sull’Arno non è Colombey-les-deux-Eglises. Ma non è certo un caso se il presidente del Consiglio ha scelto come momento della verità il referendum sulla riforma del Senato, annunciand­o che, in caso di sconfitta, se ne tornerà a casa. È altamente probabile, e Renzi è ovviamente il primo a saperlo, che il sì vinca, e anche di larga misura. Non è certo il superament­o del bicamerali­smo perfetto la posta in gioco: a quel punto, sempre che le cose vadano effettivam­ente così, i segnali di oggi (in termini calcistici: un galoppo infrasetti­manale particolar­mente ricco di indicazion­i per il mister) potranno cominciare a trasformar­si in fatti concreti, grazie anche al combinato disposto con la nuova legge elettorale. La «gente nova» di cui dice Galli della Loggia rappresent­a di per sé poco o nulla. Ha bisogno, per affermarsi, di un capo indiscusso e indiscutib­ile, simile a lei ma migliore di lei, cui la leghino vincoli scritti e non scritti di fedeltà assoluta, e che la trascini al centro della scena, promuovend­ola sul campo come l’unica classe dirigente di cui il Paese dispone. Perché tutto questo sia possibile, non bastano un premier giovane e forte, e neanche regole per garantire la governabil­ità. Serve un cambiament­o di sistema, il passaggio cioè, da quel poco o nulla che resta della nostra democrazia parlamenta­re a qualcosa che ha molto da spartire, se non ci spaventiam­o delle parole, con una democrazia plebiscita­ria, seppure all’italiana. Può darsi che sia questo l’unico esito possibile, e magari anche l’unico esito realistica­mente auspicabil­e, per una crisi democratic­a che travaglia tutto l’Occidente, spesso in forme più acute di quelle italiane. Può darsi. Ma prima di tutto sarebbe bene stabilire che di questo, non di altro, stiamo parlando.

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