La guerra dei due Islam
Il mausoleo Sayyida Zeinab è uno dei luoghi sacri della regione. E un simbolo politico da colpire
GERUSALEMME Gli uomini appoggiano la testa contro la grata di argento che vela il sarcofago intarsiato quanto le loro lacrime. Piangono la nipote di Maometto e un massacro commesso nel 680 a Karbala nell’antico Iraq. Il dolore, la rabbia, l’odio, il desiderio di vendetta sono gli stessi di milletrecentotrentasei anni fa. Una guerra mai finita e che ancora si combatte per le strade di questo quartiere a sud di Damasco, dove la città diventa lentamente campagna.
Il mausoleo di Sayyida Zeinab sta a dieci chilometri dalla capitale, dieci chilometri che le auto percorrono a tutta velocità senza fermarsi per paura dei cecchini. Da queste zone i ribelli e i miliziani dello Stato Islamico premono verso la roccaforte di Bashar Assad. Ed è per difendere la tomba e i due minareti coperti di mattonelle blu che i volontari sciiti hanno cominciato a sbarcare in Siria quando ancora il coinvolgimento dell’Iran non era ufficiale, quando i leader di Hezbollah smentivano di essere impegnati con le loro truppe irregolari nei combattimenti. Gli autobus da Beirut, Teheran, Bagdad non scaricavano più i pellegrini. O meglio: dentro alle mura del mausoleo sono affluiti i pellegrini con i kalashnikov.
Si sono proclamati difensori di uno dei luoghi più sacri per gli sciiti e l’hanno trasformato in un castello difficile da espugnare, sacchi di sabbia alle finestre, il filo spinato e i blocchi di cemento per proteggere anche il piccolo
cimitero dove vengono seppelliti i combattenti. Sanno che i fondamentalisti sunniti dello Stato Islamico vogliono provare a colpire — com’è successo ieri — quel simbolo religioso: il Califfo e i suoi uomini vogliono ricordare ancora una volta di non riconoscere l’autorità e la discendenza di Ali, il fratello di Zeinab trucidato con i familiari a Karbala.
Non che ce ne sia bisogno, la memoria degli sciiti è millenaria. Quando i rivoltosi siriani hanno accerchiato Sayyida Zeinab tra il 2012 e il 2013 in Iraq è stata creata la Brigata Abu al-Fadl al-Abbas — intitolata all’altro fratello di Zeinab, anche lui venerato martire — per raccogliere i volontari da inviare in Siria. Il gruppo ha diffuso allora due video su Internet che rinforzano l’astio religioso. Il primo filmato mostra il tempio danneggiato da un colpo di mortaio, uno dei lampadari in cristallo rovesciato sul pavimento, le immagini accompagnate dalla minaccia «taglieremo le mani ai colpevoli». L’avvertimento diventa più preciso nel secondo spezzone: «Se riceveremo l’ordine, bruceremo Damasco per cacciarvi. Non permetteremo che Zeinab venga fatta prigioniera una seconda volta».
Così il primo soccorso dall’estero deciso dagli ayatollah non aveva come obiettivo principale quello di sostenere il regime di Bashar Assad. Gli iraniani non si fidavano del suo esercito, incapace secondo loro di difendere il mausoleo, e forse non si fidavano di un regime troppo laico: gli alauiti — la minoranza al potere — sono stati accettati, almeno dagli sciiti, come autentici musulmani solo nella metà degli anni Settanta.
Nell’ufficio dell’uomo che comandava la sicurezza a Sayyida Zeinab nel 2013 mancava la foto del presidente Assad. Al posto del presidente siriano stava appesa la trinità religiosa e guerriera degli sciiti: l’ayatollah iraniano Ali Khamenei, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e Imad Mughniyeh, che del movimento libanese era lo stratega militare prima che gli israeliani lo eliminassero cinque anni fa.
Uno dei reclutatori iracheni aveva spiegato all’agenzia Reuters: «Vogliamo evitare quello che è successo da noi, quando la distruzione della moschea Imam al-Askari a Samarra (l’attentato è stato attribuito ad Al Qaeda) ha scatenato la carneficina tra sciiti e sunniti». Adesso lo Stato Islamico esporta quelle tattiche in Siria, cerca di trasformare in scontro religioso la lotta dei ribelli contro il clan di Damasco. Anche agli strateghi del Califfato interessa far dimenticare che questa guerra ormai lunga cinque anni è cominciata con le manifestazioni pacifiche del marzo 2011, quando insegnanti, impiegati, studenti universitari sono scesi in strada per chiedere le riforme.
Non permetteremo che Zeinab venga fatta prigioniera una seconda volta Un miliziano difensore della moschea L’alleanza Appese ai muri del santuario ci sono le foto di Khamenei e del capo di Hezbollah
Non consentiremo che anche qui si scateni ciò che è successo in Iraq Un volontario iracheno I primi «volontari» sciiti sono venuti in Siria per difendere il santuario: si dicevano pellegrini, portavano i kalashnikov. Il coinvolgimento dell’Iran nella guerra è iniziato così