Alta moda alla Scala
Il sogno di Dolce e Gabbana Da Tosca a Turandot abiti ispirati alle eroine di Puccini
MILANO Piange Domenico Dolce. Si commuove Stefano Gabbana. È al settimo cielo Alexander Pereira. Applaudono tutti. Standing ovation di cinque minuti sul palco della Scala. Non in platea, ma lassù dove raccolgono la gloria gli artisti, i musicisti. La magia del teatro ha creato qualcosa di unico e mai realizzato prima. Anziché un’opera, una sfilata: le seggiole d’oro e velluto disposte a cerchio sul palco, al centro ancora una fila. Sacrilegio? Avrebbe anche potuto essere, certo. Ma non è stato. Perché ognuno ha fatto il suo e nessuno e niente ha mancato di rispetto all’altro.
Sono state le maestranze della Scala a realizzare il proscenio-passerella che saliva sino al palco e poi ad appendere i grandi lampadari della Traviata di Verdi e a montare il fondale Ottocento di Ferrario, laggiù in fondo, e a posare i candelabri di «Così fan tutte» ai lati.
Sono state le sarte della Dolce & Gabbana Alta Moda a realizzare quegli abiti incredibili: ottantotto uscite. Un’emozione dopo l’altra, senza respiro. Uno spettacolo e tre direttori d’orchestra: il sovrintendente alla Scala Pereira («questo è il maximum spettacolo che la Scala può produrre», ha detto a scena aperta) e gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana («quello che stiamo vivendo oggi con voi è il nostro sogno unico e irripetibile»).
La musica di Puccini ad omaggiare il luogo. Rispetto e non profanazione, appunto. Rigore milanese e passione siciliana. E tutto torna. La partenza innanzitutto: con la storia di Biki la sarta milanese che era anche la nipote del famoso compositore ed era cresciuta accanto al nonno (era lui a chiamarla Biki da «birichina») e dunque con l’arte per compagna d’infanzia e il sogno come gioco. Cominciò con i maglioni di lana colorata tricottata per i militari e finì a vestire la bella società milanese, aristocratica e borghese, ma non solo, anche attrici, scrittrici e artiste riuscendo a rendere sempre, con la sua passione, le donne uniche. «Perché era lei forte ed emancipata — raccontano gli stilisti che si sono innamorati della sua storia — . E la sua passione era amore di quello che non conosce tempo né spazio e vince sempre».
La milanesità, innanzitutto, quella autentica che non è mai sopra le righe, ma sempre perfettamente controllata fra decoro ed eleganza. «Nel rispetto poi del luogo: nessuna scollatura o trasparenza o che altro. Abbiamo raccontato la storia di Biki ma anche quella di questo meraviglioso posto: siamo andati negli archivi, nei magazzini. Non c’è nulla che non abbia una storia in questa sfilata. E abbiamo voluto che ad accogliere gli invitati nel foyer ci fossero i costumi originali delle opere di Puccini», aggiungono.
Così ecco i tubini in cachemire grigi e rigorosi contaminati dal barocco di casa: i grandi bottoni d’oro o il dietro in tessuto broccato. O i perfetti abiti da cocktail neri da indossare all’occorrenza con un cappuccio che arriva a coprire lo scollo troppo a tuffo per una prima. E ancora i tailleur precisi di tweed ma ricamati con la nuova tecnica. Poi le donne di Puccini: la fanciulla del West, Madama Butterfly, Tosca, Turandot. Abiti preziosi. Corpetti e gonne vaporose. Tubini di crepe di lana stretch e tailleur. Vesti da gran ballo o morbidamente attillate e ricamate di paillettes. Chemisier di velluto o creazioni da cocktail ricamate con i satiri d’oro che addobbano i palchi.
C’è il visone a intarsio con il programma della Turandot e la cappa di duchesse con il cartellone della Butterfly in micro paillettes. Oppure, all’improvviso, giacche e cappotti e smoking dal sapore maschile, non a caso realizzati dall’alta sartoria uomo. «Sempre per via della passione che ci fa amare questo lavoro — raccontano gli stilisti — da pretendere il massimo: e non sono forse i più bei capi spalla quelli realizzati per gli uomini?». E certo.
Ma lo sforzo creativo va oltre: gli abiti più nuovi sono quelli apparentemente non finiti, work in progress con i nastri che svolazzano, gli spilli e i metri d’oro e sono fatti con sete che hanno dipinte a mano scene dall’atelier o schizzi degli stilisti. Bellissimi, struggenti come certi copricapi iper decorati con i simboli di Milano: il Teatro alla Scala, il Castello Sforzesco, il Duomo.
Poi gioielli e accessori senza limiti. Come gli orecchini perfette copie dei lampadari del teatro, o quelli con le ballerine o il palco stesso. Pendenti come rocchetti di filo, forbici, manichini, bottoni: diamanti, zaffiri, rubini, smeraldi. Orologi d’oro come cuscinetti puntaspilli. Collier-metro snodati. L’uscita finale è un applauso ininterrotto che sale d’intensità quando escono gli stilisti, chiamati tre volte come gli artisti. Poi tutti giù dal palco e su, di corsa, sui palchetti attorno per il gran finale.
Si chiude il sipario per qualche minuto e quando si riapre sale un nuovo allestimento: camerieri in smoking e trenta tavole imbandite da dieci invitati ciascuno.
Menù meneghino: risotto giallo e milanese. Viva l’Italia, grida qualcuno. Viva Milano, è l’eco.