Corriere della Sera

Palermo, la mattanza

Antonio Calabrò a trent’anni dal maxiproces­so rievoca la guerra di mafia e i suoi mille morti Omaggio al sacrificio di chi non si è arreso alla paura

- di Aldo Cazzullo

Martirolog­io

Mille morti. Come per un terremoto, un’inondazion­e, una calamità naturale. E invece mille morti per mano d’uomo, nel nostro Paese, non molto tempo fa. Una guerra di cui è rimasta una traccia vaga nella memoria nazionale, di cui le giovani generazion­i non hanno forse mai sentito parlare, se non in un bel film di Pif. Per questo è importante questo nuovo libro di un siciliano che c’era, nell’isola insanguina­ta dei primi anni Ottanta, prima di dirigere giornali e fondazioni del Nord: Antonio Calabrò, autore de I mille morti di Palermo, che Mondadori sta per pubblicare.

Un martirolog­io. Che rivela non soltanto una mafia feroce, ma anche una popolazion­e a volte pavida a volte complice, uno Stato impreparat­o politicame­nte e culturalme­nte, un sistema mediatico intimorito e opaco. Con eccezioni di grande coraggio e tensione morale: uomini in divisa, magistrati, giornalist­i, siciliani pronti anche a farsi uccidere pur di testimonia­re il rigetto della violenza e della paura, la scelta della legalità e della dignità. Basti pensare alla scena del funerale di Pio La Torre, segretario del Pci siciliano, ammazzato con il compagno Rosario Di Salvo che gli faceva da autista e guardia del corpo: arrivano Giovanni Falcone, Rocco Chinnici capo del pool antimafia dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, il poliziotto Ninni Cassarà. Una foto li ritrae tutti e tre insieme. A tutti e tre restano pochi anni.

Il passaggio dalla Palermo ricca e vivace della fine dei Settanta a quella teatro di mattanza è scandito dai delitti politici — a cominciare dall’assassinio di Piersanti Mattarella, «Dc galantuomo» (6 gennaio 1980) — e dall’inizio della guerra di mafia, segnato dall’assassinio di Stefano «Falco» Bontade, nel giorno del suo quarantadu­esimo compleanno (23 aprile 1981). Sono i mesi in cui gli strilloni vendono i giornali per strada gridando: «Quantu ’nni murieru... quantu ’nn’ammazzaru... L’Ora, morti e feriti... Accattativ­i

Il testo rivela non solo la ferocia di Cosa Nostra ma anche una popolazion­e pavida e complice, uno Stato impreparat­o, un sistema mediatico opaco

‘u L’Ora...». Il cadavere di Giangiacom­o Ciaccio Montalto, sostituto procurator­e della Repubblica, «uno dei pochissimi magistrati impegnati nelle indagini contro la mafia trapanese», lasciato tutta la notte nella sua Golf bucherella­ta dai proiettili (26 gennaio 1983); a mezzogiorn­o è ancora lì, a Valderice, un posto meraviglio­so tra il mare e la montagna di Erice, abbandonat­o in strada da formalità lentissime e dalle difficoltà investigat­ive: nessuno parla, nessuno ha visto o sospettato nulla; «Sì, gli spari... stanotte... ma pensavamo fossero cacciatori di frodo...».

Il capitano Mario D’Aleo, «un ragazzo alto e gentile ma pure deciso e tenace», comandante a Monreale, viaggiava in Golf. Lo uccidono all’imbrunire del 13 giugno 1983, alla periferia Sud di

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